La frase chiave è questa: «Il dottor Giuffrida chiariva inoltre che la funzione di approfondimento tecnico che egli avrebbe dovuto svolgere era stata costantemente sottoposta allo specifico e ineludibile coordinamento e al diretto controllo dei pubblici ministeri, così come parimenti era avvenuto anche per la scelta dei documenti da consultare e per la materiale acquisizione degli stessi».
Così è scritto testualmente e firmato nell’atto di transazione concluso tra la Fininvest e Francesco Paolo Giuffrida, il funzionario della Banca d’Italia incaricato nel 1999 dalla procura di Palermo per esaminare i bilanci delle televisioni di Silvio Berlusconi e per «scoprire» la presenza di fondi sospetti magari provenienti da finanziamenti della mafia. Giuffrida «scoprì», e così scrisse nella sua relazione e così confermò a viva voce in dibattimento, otto operazioni di cui «non era riuscito a identificare l’origine della provvista» e per le quali egli aveva concluso in senso dubitativo «ingenerando così la convinzione che nelle casse della Fininvest vi potessero essere stati afflussi di danaro di provenienza illecita».
Trascinato in tribunale dalla Fininvest, che ha messo sotto gli occhi dei giudici le prove provate della provenienza chiara e trasparente e più che lecita di quelle provviste, Giuffrida ha firmato venerdì scorso, dopo otto anni dal suo incarico, l’atto di transazione in cui riconosce che i suoi «dubbi» sulle origini dei finanziamenti alla Fininvest, che hanno alimentato otto anni di calunnie giudiziarie e mediatiche e politiche contro Silvio Berlusconi e i suoi soci e i suoi amici, non avevano nessuna ragione di essere e che erano dovuti soprattutto al fatto che non aveva potuto completare e approfondire i suoi esami per la chiusura dei termini di legge, e quindi era stato costretto a presentare alla procura e a confermare al tribunale conclusioni parziali e provvisorie (senza dire però, al momento in cui le aveva presentate e confermate, che erano parziali e provvisorie).
Ma queste sono chiacchiere. I veri motivi dell’operazione a cui Giuffrida si è prestato sono tutti in quella frase chiave, che si legge ineluttabilmente così: tutto quello che ho fatto e che ho riferito, a partire dalla scelta stessa dei documenti da consultare e da acquisire, è stato voluto e richiesto e controllato dai pubblici ministeri della procura di Palermo. Giuffrida è stato arruolato e gestito dagli inquirenti di Palermo come un qualunque «pentito», ha fatto e ha detto e ha riferito ciò che loro volevano che facesse e che dicesse e che riferisse, e oggi, dopo che per otto anni con la sua relazione ha permesso il linciaggio giudiziario e mediatico e politico di Berlusconi e dei suoi amici, il «pentito» qualunque Giuffrida ritratta e si giustifica e si scusa. E firma un atto di transazione: e i Pm di Palermo?
I pubblici ministeri di Palermo non solo non ritrattano, non si giustificano e non si scusano, ma hanno continuato a usare e a sfruttare le carte di Giuffrida e, dopo l’archiviazione del procedimento per riciclaggio contro Berlusconi, hanno riversato pari pari quelle carte nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro Marcello Dell’Utri, e contro Dell’Utri continuano a usare quelle carte false (e non solo quelle) nel processo d’appello tuttora in corso. I Pm non si pentono. Non si sono pentiti nemmeno i Pm che a Caltanissetta hanno inquisito per anni Berlusconi e Dell’Utri per strage, quali presunti «mandanti occulti» della strage di Capaci e della strage di via D’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte. Non si è pentita il pm Ilda Boccassini che, distaccata da Milano a Caltanissetta per scoprire gli assassini di Falcone, interrogò il «pentito» Salvatore Cancemi e ne verbalizzò per prima la geniale «intuizione», che la Fininvest finanziava Cosa Nostra, e non per «proteggere» le antenne delle sue televisioni in Sicilia, come pure s’era detto, ma proprio per preparare le stragi. Non si è pentita il pm Anna Maria Palma, distaccata da Palermo a Caltanissetta, per scoprire gli assassini di Paolo Borsellino, e che nel corso della sua requisitoria per il processo Borsellino bis affermò che erano state ormai «sufficientemente provate» le accuse di Cancemi, che Berlusconi e Dell’Utri si erano incontrati con il capo di Cosa Nostra Totò Riina alla vigilia della strage di via D’Amelio e in pratica gli avevano dato mandato di uccidere Borsellino.
Non si è pentito il pm Luca Tescaroli, distaccato anche lui da Firenze a Caltanissetta, e che ha scritto nella sua requisitoria per il processo della strage di Capaci, e ne ha fatto poi un libro, che quella di Cancemi, più che una «intuizione», era stata una «deduzione logica»: visto che il presunto «pizzo» versato dalla Fininvest alla mafia non era tanto un pizzo per proteggere le antenne delle tv, ma era un modo di finanziare Cosa Nostra; visto che Riina diceva, e Cancemi l’aveva sentito con le proprie orecchie, che ormai «aveva ’nte manu’» Berlusconi e Dell’Utri e che per aiutarli a prendere il potere bisognava fare le stragi; visto che prima della strage Riina aveva incontrato «due persone importanti», evidentemente queste persone non potevano che essere Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. E dunque «possiamo affermare con assoluta certezza che il disegno criminale nel suo complesso, e la strage di Capaci del 23 maggio 1992, in particolare, si è mosso correlativamente al procedere di trattative volte a incidere sui poteri politici e istituzionali, e sull’azione degli stessi, per ottenere vantaggi per gli adepti dell’accolita».
Tutto ciò consente di inquadrare «le ipotesi di trattative coltivate e le ipotesi degli attentati programmati ed eseguiti nell’azione volta a creare le condizioni per l’affermazione di una nuova formazione politica». Forza Italia, dunque, si è affermata e ha vinto perché Berlusconi e Dell’Utri hanno convinto Riina a fare le stragi e a dare così il colpo di grazia alla prima Repubblica.
Tescaroli è stato così convinto delle sue tesi che si rifiutò di firmare l’archiviazione del procedimento per strage contro Berlusconi e Dell’Utri e lasciò Caltanissetta per tornarsene sul continente. Niente paura: nel quindicesimo anniversario della strage di via D’Amelio, a Caltanissetta hanno deciso di riaprire le indagine sui «servizi segreti deviati» e sui «mandanti occulti».
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