Ieri è partita la protesta delle province contro la loro abolizione. Non prendetemi per pazzo se dico che dovremmo abolire sia le regioni che le province. Non solo per sacrosanta smania di tagli alla politica, ma per un ragionamento fondato sulla realtà anche se di difficile attuazione.
Le regioni sono delle costose forzature che assemblano realtà storiche e geografiche eterogenee: Emilia e Romagna, Trentino e Alto Adige, Friuli e Venezia Giulia, sono solo le più evidenti.
E le province furono una forzatura ottocentesca sul modello delle prefetture napoleoniche. In realtà ci sono aree intermedie tra le province e le regioni che riflettono la storia, la vita e l’assetto geoculturale del nostro Paese.
Sono 50/60 realtà ben più coerenti. Per esempio, le Puglie sono almeno tre: il Salento, la Daunia e il Barese. Ma lo stesso direi della Sicilia, vera Trinacria, o la Campania- tra sanniti-irpini, salernitani e napoletani - , la Lucania spaccata tra Cilento e Basilicata,e l’alto Lazio o Tuscia e il basso Lazio ciociaro, più l’area romana. E la Toscana, con la Maremma che guarda a Siena, Pisa che guarda a Livorno e alla Lucchesia, e l’area fiorentina- aretina. E l’Emilia diversa dalla Romagna e dal Parmense.
E poi l’anima plurale delle Marche, Abruzzi, del Nord e via dicendo.
Via le 20 regioni e le oltre cento province, sì alle comunità intermedie. Utopia? Sì, perché sono troppo vere e meno costose.
Se l’Italia è una nazione culturale, è giusto che anche le sue piccole patrie siano disegnate sulla linea storica- linguistica-culturale.
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