Giovanni Gentile era al culmine della carriera accademica quando venne chiamato a far parte del primo governo Mussolini come ministro della Pubblica istruzione. Mussolini non lo conosceva e il suo nome gli fu suggerito da un vecchio amico di battaglie politiche, il sindacalista Agostino Lanzillo. Prima di accettare il filosofo chiese e ottenne la garanzia che non avrebbe dovuto modificare le proprie idee sull'esame di stato obbligatorio e aggiunse che non avrebbe potuto far parte di un «governo dittatorio». A quell'epoca, a 47 anni compiuti, Gentile era nel pieno della sua maturità di studioso, aveva scritto opere importanti, collaborava con Benedetto Croce sia a La Critica sia in altre attività editoriali e aveva già delineato i caratteri del suo «attualismo».
Da sempre si era interessato di pedagogia e di questioni inerenti l'educazione. Era, quindi, la persona giusta per il posto giusto. La scuola, l'insegnamento, la formazione degli insegnanti e la creazione di una classe dirigente erano tutti temi all'ordine del giorno. All'indomani dell'unificazione, nel 1861, era stata estesa all'intero territorio nazionale la Legge Casati, che cercava di organizzare in modo organico l'ordinamento scolastico. Peraltro, nel corso dei decenni successivi, le questioni della scuola erano state discusse e studiate per giungere a una legislazione che tenesse presenti le trasformazioni e le esigenze di uno Stato ormai cresciuto.
Gentile, appena nominato ministro, si mise subito al lavoro con una squadra di personalità, molte delle quali provenienti dall'ambiente crociano e salveminiano, tutte di grande qualità: da Ernesto Codignola a Giuseppe Lombardo Radice, da Leonardo Severi a Giorgio Pasquali e via dicendo. Grazie ai poteri che la Camera aveva concesso a Mussolini, egli poté lavorare attraverso l'emanazione di una serie di decreti-legge che, nel loro complesso, disegnarono e realizzarono una riforma organica complessiva passata alla storia, appunto, come «riforma Gentile».
I provvedimenti adottati si tradussero, insomma, in una vera e propria costruzione normativa che, avendo come presupposto l'innalzamento dell'obbligo scolastico fino al quattordicesimo anno di età, partiva dalla scuola elementare e giungeva fino all'università. Essi prevedevano l'istituzione di asili per bimbi dai tre ai sei anni e una scuola elementare in gran parte affidata all'impegno e alla libertà didattica dell'insegnante, cui seguivano diverse possibilità di percorsi pedagogici in certo senso collegati ai ruoli che i giovani, divenuti adulti, avrebbero svolto nella società. Si poteva scegliere tra una scuola «complementare» triennale per l'avviamento al lavoro ovvero un istituto tecnico quadriennale, o ancora l'istituto magistrale o, infine, il ginnasio seguito dal liceo classico che consentiva l'accesso a tutte le facoltà universitarie e che era considerato da Gentile «il vivaio principale delle classi superiori della nazione». Erano anche previsti un liceo scientifico quadriennale che dava accesso soltanto ad alcune facoltà scientifiche e un liceo femminile.
Certo, la riforma Gentile, a ben vedere, aveva un connotato fortemente elitario e selettivo fondato sul merito. Essa privilegiava le discipline umanistiche, dava spazio all'insegnamento della religione considerata come forma primigenia di filosofia e assegnava grande importanza agli esami di maturità. L'università doveva essere la meta cui sarebbero dovuti giungere i migliori studenti destinati a dirigere lo Stato e a occuparsi degli studi e di ricerca scientifica. I criteri e i fini della riforma furono illustrati da Gentile in una intervista al Corriere Italiano del 17 gennaio 1924. In quella occasione egli disse che si era proposto di «restituire a ciascuna scuola il suo fine ben determinato e a tutte la libertà e la serietà della vita spirituale». Sintetizzò così le caratteristiche dei principali istituti previsti dalla riforma: «il liceo-ginnasio, istituto di preparazione all'alta cultura, ha carattere storico-umanistico; accanto ad esso il liceo-scientifico sarà una scuola con una intonazione più realistica, ma non perciò meno formativa. Natura diversa hanno le due sezioni degli istituti tecnici: il loro carattere pratico sarà meglio determinato con la partecipazione dei tecnici professionisti alle commissioni d'esame che abiliteranno all'esercizio dell'agrimensura e della ragioneria. L'istituto magistrale ha natura sua propria, che esce ben determinata dalla formulazione dei programmi delle singole materie: istituto non artificiosamente e meccanicamente professionale, ma formativo anch'esso, a base umanistica, e sottratto alla vieta formalistica del pedagogismo. In esso coloro che vi entrano troveranno un ambiente adatto per poter sviluppare liberamente la propria attitudine e la vocazione alla cura dell'infanzia». Nella stessa intervista Gentile disse che alle università era stata data «autonomia amministrativa e didattica» e precisò: «se di esse gli istituti sapranno fare buon uso, avremo un rinnovamento della scienza e della tecnica italiana. La concorrenza degli istituti che sorgeranno accanto alle università statali, non potrà non elevare il tono di queste».
Molti elogiarono la riforma e tra questi vi fu Giuseppe Prezzolini che le riconobbe una certa autonoma «virtù liberale» indipendentemente dall'avvento del fascismo. Ma naturalmente non pochi non soltanto tra gli antifascisti come Piero Gobetti o Augusto Monti la criticarono. Gentile, tuttavia, la difese sempre con grande energia dagli attacchi concentrici intensificatisi dopo aver lasciato il ministero. Il 5 febbraio 1925, per esempio, in occasione del dibattito sul bilancio della Pubblica istruzione, ribadì in Senato il concetto che si trattava di una riforma organica dalla scuola elementare all'università, risultato di studi fatti o promossi dai suoi predecessori: una riforma, insomma tutt'altro che eversiva o rivoluzionaria ma che si risolveva in un ordinamento che egli non esitò a definire «liberale» con il pensiero rivolto a quel liberalismo della Destra storica centrato sullo Stato etico teorizzato da Bertrando Spaventa che egli avrebbe poi difeso in una celebre e amichevole polemica con Mario Missiroli.
Sul «liberalismo» della riforma Gentile molto si è scritto, a proposito o a sproposito, per contestarlo, spesso con gli occhi offuscati dalla ideologia. Vale la pena di rammentare che Gentile, quando fu chiamato a guidare il ministero della Pubblica istruzione, era proprio un liberale che rivendicava l'eredità della visione del Risorgimento propria della Destra storica: non a caso, quando decise di aderire formalmente al fascismo, lo fece ribadendo, in una lettera a Mussolini, di essere «liberale per profonda e salda convinzione» e precisando di essersi deciso a quel passo perché convintosi che il liberalismo com'egli lo intendeva e «come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra, che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come realtà etica» non era più rappresentato da coloro che si definivano liberali ma da quanti si stringevano attorno a lui.
Non è privo di significato ricordare che il primo grande tentativo di stravolgere la riforma Gentile nel suo complesso, a parte certi «ritocchi» tentati o realizzati nel corso degli anni, venne quando il fascismo era ormai proiettato verso la fase «totalitaria» della storia del regime, con la Carta della scuola redatta da Giuseppe Bottai con lo scopo di rendere sempre più pervasiva la presenza del fascismo nell'educazione dei giovani. La Carta della scuola, peraltro, fu destinata a rimanere inattuata per lo scoppio della guerra. Così la riforma Gentile restò in vigore, pur con taluni ritocchi, nel dopoguerra, almeno fino all'inizio degli anni Sessanta quando venne introdotta la scuola media unificata con l'abbandono della scuola di avviamento professionale e quando ebbe inizio una lunga stagione di interventi legislativi in campo scolastico ed educativo.
Che la riforma Gentile abbia funzionato, contribuendo a formare lavoratori e dirigenti professionalmente preparati ed educati al senso del dovere e al senso dello Stato, è fuor di dubbio, come dimostrano il livello culturale della classe politica dell'immediato dopoguerra e i successi del Paese. Poi tutto cambiò: il Sessantotto e la contestazione studentesca, indipendentemente dalle motivazioni originarie, finirono per scardinare l'intero sistema aprendo la strada verso il precipizio.
La scuola, a tutti i livelli, dalle elementari all'Università, ha perduto poco alla volta la propria fisionomia e la propria vocazione educativa. È giusto pertanto, e doveroso, ricordare a cento anni di distanza la realizzazione di una buona, ottima riforma, la riforma Gentile.
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