Ritornano i barbari Ma questa volta ci faranno del bene

INSIEME Sviluppare il senso di appartenenza rende i gruppi più solidi e compatti

Ritornano i barbari Ma questa volta ci faranno del bene

La metafora delle «tribù» - o delle comunità - fa cogliere la metamorfosi del legame sociale e la saturazione dell’identità e dell’individualismo che ne è espressione. «Tribù» è, come «comunità», un termine cui ora alcuni intellettuali danno la giusta importanza. La realtà del tribalismo, o comunitarismo, emerge accecante, nel bene e nel male. Realtà ineludibile, non limitata a una particolare area geografica. Realtà da ripensare.
Qui sta il paradosso: indicare una direzione sicura dalle «parole», senza aver la sicurezza del concetto. Si possono sintetizzare nuove «parole» lungo due grandi assi essenziali: quello che pone l’accento sugli aspetti, «arcaici» e giovanili insieme, del tribalismo; e quello che ne sottolinea la dimensione comunitaria e la saturazione del concetto di Individuo e della logica identitaria. Per la comunità post-moderna sono le radici tipiche. Un pensiero radicale deve dunque considerarle.
In fondo a ogni pensiero creativo c’è sempre l’intuizione. Si può considerarla tale se è congrua all’intuizione creatrice dell’epoca. Motore delle mie analisi è l’intuizione della potenza che chiamo «societale», ovvero di un essere insieme non solo razionale, ma anche onirico, ludico, emotivo. L’ho definita socialità, centralità sotterranea; il termine poco importa. Si trattava di sottolineare questa forza interna, che precede e che fonda il potere nelle sue varie forme. Mi sembra che sia tale «forza» ad agire nelle comunità contemporanee e nelle loro molte identificazioni, alle quali dà impulso. Dopo il dominio della ragione meccanica e prevedibile, della ragione strumentale e strettamente utilitaria, prevale l’emozionale, la condivisione delle passioni.
Tipico della postmodernità è il ritorno esacerbato dell’arcaismo, ovvero di quanto più urta la sensibilità progressista degli osservatori sociali. Al Progresso lineare e sicuro, causa ed effetto di un evidente benessere sociale, succede il «regresso» del «tempo delle tribù». Ritorno in spirale di valori arcaici, come la comunità, connessi allo sviluppo tecnologico. Le comunità contemporanee non perseguono un fine, non hanno un progetto economico, politico, sociale da realizzare; preferiscono «entrare nel» piacere d’esser insieme, «entrare nell’» intensità del momento, «entrare nel» godimento del mondo com’è.
Questo vitalismo si rintraccia nelle effervescenze musicali. Ma lo si osserva anche nella creatività pubblicitaria, nel ritorno alla natura, nell’ecologismo, nell’esasperare pelo, pelle, umori e odori, insomma ciò che, nell’umano, evochi l’animale. Vita inselvatichita! È il paradosso essenziale delle comunità post-moderne, che inscenano l’originario, il primitivo e il barbarico. E così ri-dinamizzano, talora inconsapevolmente, un corpo sociale un po’ declinante, la fedeltà alle fonti è garanzia d’avvenire. Per la comunità, il luogo fa il legame.
Per certi osservatori sociali il tribalismo, empiricamente ormai incontestabile, è di una fascia d’età, quella di un’adolescenza prolungata. Un modo per negare il profondo cambiamento di paradigma in corso. Parlare giovane, vestire giovane, curare il corpo sono isterie sociali condivise. Molto condivise. Chiunque - di qualsiasi età, classe, status - è variamente contaminato dalla figura dell’«eterno bambino». Alla struttura verticale, patriarcale, sta subentrando la struttura orizzontale, fraterna. Davanti all’anemia esistenziale suscitata dall’iper-razionalizzazione sociale, le tribù urbane sottolineano l’urgenza d’una socialità empatica: condivisione di emozioni e affetti. Fondamento dell’essere insieme, il «commercio» non è solo scambio di beni; è anche «commercio di idee», «commercio amoroso».
Siamo lungi dall’universalismo moderno, quello illuminista, quello dell’Occidente trionfante. Universalismo che in realtà era solo un etnocentrismo particolare generalizzato: i valori d’un esiguo angolo di mondo proposti come modello per tutti. Il tribalismo, o comunità, evoca, empiricamente, l’importanza del senso d’appartenenza a un luogo, a un gruppo, come fondamento essenziale di ogni vita sociale.
Con le conseguenze sociologiche che ciò comporta, dallo scivolare dell’individuo all’identità stabile che esercita la sua funzione negli insiemi contrattuali, alla persona, alle molteplici identificazioni che hanno un ruolo nelle comunità «affettuali», cioè in un ambiente che includa il «non-logico» (per dirla con Vilfredo Pareto) e dove gli affetti siano determinanti. Ecco quindi la partecipazione magica a qualcosa di pre-individuale, o ancora il fatto di esistere solo nel quadro d’un inconscio collettivo.
Tale considerazione del sensibile, dell’humus, del corpo, è di molte culture. Perciò il nuovo millennio non sarà catastrofico come predicono alcuni. Ma segnerà la fine di un’epoca, quella del mondo imperniato sul primato dell’individuo. Individui padroni della loro storia e dunque capaci di fare, con individui omologhi, la Storia del mondo. Il ritorno in forza del destino, del quale siamo tributari, è correlativo al ritorno della comunità.
Destino comunitario, comunità di destino, ecco il «marchio» del tribalismo. Ciò spaventa chi s’era abituato alla meccanica della società instauratasi con l’era moderna. È la paura suscitata dal catastrofismo ambientale, che vede nel tribalismo, nella comunità, il ritorno della barbarie. Ma, da un lato, la barbarie ha spesso rigenerato corpi sociali languenti e illanguiditi da un lungo periodo d’endogamia; dall’altro, l’ideale comunitario sarebbe forse più nocivo che l’ideale societario? Comunque è occasione di calore umano.

È l’interazione natura/cultura che sottolinea l’importanza del quotidiano, insomma la prossemica, a confortare gli affetti. L’orizzontalità che affratella, tipica della comunità, è causa ed effetto di un’innegabile vitalità, fondata su molteplici interazioni, che costituiscono l’odierna complessità.
(Traduzione
di )

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