Ci mancava solo un’improvvisa moria di pesci a raccontare il dramma della Valle del Sacco. Un’area di frontiera a cavallo tra Roma e Frosinone. Più di 7mila ettari che seguono il corso di un fiume, il Sacco, abbracciando una venticinquina di comuni. Terra di raccolti e pastorizia, ma anche di fabbriche e veleni. Ogni stagione, qui, reca con sé qualche novità. Quasi mai, però, c’è da sorridere. Già a dicembre dello scorso anno le acque del Sacco vennero invase da un’inquietante schiuma bianca, causata, secondo l’Arpa Lazio, da uno “sversamento straordinario” e “sostanzioso” di detergenti ed emulsionanti.
Oggi, quelle stesse acque, stanno restituendo i cadaveri di decine di pesci. A denunciare l’accaduto è Ilio Crescenzi, della Task Force Allerta Valle del Sacco. Una vera e propria moria, spiega Crescenzi a IlGiornale.it, che interessa il fiume nel tratto che va da Patrica a Ceccano e si estende per circa 8 chilometri. “Le prime carcasse – racconta – le abbiamo viste affiorare domenica”. Col passare delle ore e dei giorni, però, il fenomeno è diventato più intenso, Crescenzi parla di 2-3 carcasse ogni 20 secondi, e sono comparsi pure i miasmi. “C’è un odore nauseabondo, cadaverico, sembra di stare su un peschereccio”, prosegue il portavoce della Task Force Allerta Valle del Sacco, che ha documentato l’accaduto con un video.
Nel filmato si distinguono pesci di diverse specie e dimensioni. “Si tratta principalmente di pesci della famiglia dei ciprinidi, quindi carpe, cavedani, carassi – ci spiega Luca Fontana, vicepresidente dell’associazione Pescatori Laziali – ma c’è anche un pesce gatto”. Ed è proprio la presenza di quest’ultimo a mettere in allarme l’esperto. “Sono pesci particolarmente resistenti, che hanno la capacità di adattarsi agli ambienti meno ospitali, riuscendo a sopravvivere persino nel fango e fuori dall’acqua. Insomma – conclude Fontana – per ammazzare un pesce gatto ci vuole qualcosa di serio e, quindi, se il numero di esemplari coinvolti nella moria dovesse esser cospicuo sarebbe il segno di un fenomeno di inquinamento abbastanza importante”.
A tutto questo fa da cornice la nube nera che da domenica scorsa staziona su Frosinone in seguito all’incendio, forse di natura dolosa, divampato nei capannoni della Mecoris, azienda che si occupa di trattare e smaltire rifiuti speciali e industriali. L’Arpa Lazio e il sindaco Nicola Ottaviani hanno rassicurato la popolazione: dicono che l’emergenza è passata ed i valori della diossina sono nella norma, ma c’è chi non gli crede. “Ci hanno raccontato che la combustione ha riguardato solo carta, cartoni e imballaggi di plastica, allora perché – si domanda Crescenzi – a distanza di tre giorni ancora non si è riuscito a domare le fiamme?”.
Nella conferenza stampa convocata lunedì, il primo cittadino ha assicurato che la Mecoris non era autorizzata a trattare rifiuti pericolosi, eppure, la versione che dà la pagina Facebook Cittadini Attivi di Frosinone è un’altra. L’autorizzazione rilasciata all’azienda dalla Provincia di Frosinone, stando alle carte diffuse dal gruppo, riguarderebbe infatti “il recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non”.
Ecco perchè le cronache ciociare descrivono una città che somiglia a Chernobyl. Una città fantasma, fatta di saracinesche abbassate e finestre chiuse. Chi esce di casa lo fa solo per sbrigare rapide commissioni e con addosso la mascherina anti-smog.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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