An ruba Bennato alla sinistra Al Pd restano i «vecchi» Pooh

Il rocker che con l’«Isola che non c’è» divenne simbolo delle lotte antagoniste canterà per i giovani di destra

da Roma

Un tempo erano Solo canzonette. Adesso, visto che la politica si fa sempre più deideologizzata, un gruppo musicale conta più di una identità o di un simbolo. E dunque, fra le notizie dell’estate c’è anche questa, uno strano scambio di affiliazioni. Mentre la festa democratica di Firenze arruola i Pooh come gruppo di punta della kermesse del Pd, la Festa di Atreju, quella dei giovani di An che si svolge tradizionalmente a Roma, fa un colpo gobbo, e porta sul suo palcoscenico nientemeno che Edoardo Bennato. Lo fa, con la consapevolezza di aver infranto un altro mito: «Sono molto contenta che mentre loro si prendono la nostalgia incanutita dei Pooh, noi arruoliamo le chitarre ribelli di Bennato», come spiega il ministro Giorgia Meloni, regista dell’iniziativa.
La Meloni, scaramantica, ha spettato di firmare il contratto, prima di dare l’annuncio. E ovviamente precisa: «Non voglio minimamente arruolare Bennato in una appartenenza politica, registro con piacere che ha gradito il nostro invito, che gli fa piacere suonare anche per noi. Questo gli fa onore, per la sua storia, e anche per la qualità della sua musica». Ovviamente il ministro ha ragione, se non altro perché la storia di Bennato si è spesso incrociata con quella della politica: abbiamo ricordato cento volte come uno dei suoi più grandi successi raccontava anche della rottura con i manager delle «feste di partito» e L’isola che non c’è per lungo tempo fu la canzone bandiera di tutta la sinistra alternativa degli anni ’80. Bennato fu oggetto anche di un «derby» a sinistra quando il suo Ok Italia fu esaltato dai socialisti di Bettino Craxi e fortemente censurato dal Pds di Achille Occhetto. Si diceva che era un inno all’edonismo, al consumismo, una sofisticata apologia del Bettino premier. In tempi più recenti, ma sempre ancora una volta a sinistra, Bennato cantò per i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio, accettò di fare da testimonial in nome delle cause ecologiche e ambientali che gli sono sempre state a cuore. Addirittura, il ministero dell’Ambiente preparò delle strisce a fumetti che esaltavano il suo «natura rock». Oggi la Meloni dichiara il suo orgoglio per averlo scritturato e spiega: «Non so se posso dire che la nostra è una battaglia culturale, ma sicuramente ci fa piacere averlo, perché è molto più vicino alle corde dei giovani di An la sua poetica dell’utopia che le melodie per sessantenni dei Pooh. Non c’è nessuno scippo, il nostro non è un dispetto culturale, è piuttosto il prodotto di un fenomeno che sta accadendo nella politica: la sinistra perde identità e cerca sicurezza nel porto conservatore, noi cerchiamo di rappresentare il rinnovamento e quindi ci avviciniamo alla musica di un ribelle del rock».
In un Paese melodico come l’Italia è vero che la canzonetta ha sempre rappresentato la continuazione della politica con altri mezzi. Sicuramente fra gli elementi di immagine che hanno accompagnato la vittoria del centrodestra, c’è stata l’incredibile canzone (Menomale che Silvio c’è) di Andrea Vantini. Così come ormai è assodato che Michele Apicella - di cui sta per uscire un altro cd a quattro mani con Silvio Berlusconi - è uno degli uomini simbolo dell’immagine berlusconiana. Davide Van Der Sfroos, cantautore folk lombardo, è stato scelto dalla Lega come proprio beniamino. Con Ivano Fossati, invece, accadde addirittura che un brano non politico, La canzone popolare, sia diventato successivamente l’inno dell’Ulivo di Romano Prodi in campagna elettorale. Nel presentare la festa del Partito democratico, un neodirigente di quel partito come Luca Sofri, però, teorizzava la discontinuità canora: «Basta con gli Inti-Illimani, serve qualcosa che rappresenti una sinistra più moderna come i Radiohead».
Gli Inti-Illimani, il gruppo cileno rimasto intrappolato fuori dal Cile nel 1973, dopo il golpe di Pinochet, divennero la bandiera delle feste dell’Unità di un tempo, salivano su tutti i palchi con il loro poncho, cantavano l’esilio, gli orrori della dittatura, il sogno della giustizia sociale e avevano accompagnato tutta la campagna elettorale di Salvador Allende. Divennero così onnipresenti che perfino un cantautore di sinistra come Lucio Dalla arrivò a criticarli con un verso celebre: «Che palle la musica andina». In questo terremoto di simboli che la politica di oggi vive, si passa dalla loro canzone militante, allo sconfinamento nel campo avversario, visto che i Pooh, da sempre, sono uno dei pochi gruppi musicali dichiaratamente schierati a destra. Chissà se la sortita della Meloni susciterà reazioni, chissà se il contropiede della politica produrrà nuovi arruolamenti.

Grande è il disordine sotto il cielo: Lorenzo Jovanotti è stato pubblicamente elogiato dal ministro della Cultura Sandro Bondi, e fra l’altro ha raccontato ad «A», il settimanale di Maria Latella, che la candidatura della Madia gli ha fatto passare la voglia di votare Pd. Nessuno ha mai quantificato se le note si traducano in voti, di sicuro, un colpo come quello di Bennato produce immagine. Che poi forse è la stessa cosa.

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