La crescente tensione russo-americana, frutto della crisi georgiana, ha già fatto parlare molti osservatori di ritorno al «linguaggio della Guerra fredda». Espressione non sbagliata, specie se riferita alle dichiarazioni di Washington. Ma fondamentalmente impropria. Durante la Guerra fredda, il conflitto fra Stati Uniti e Unione Sovietica aveva evidenti contorni ideologici: blocco comunista da un lato, «mondo libero» dall'altro. Oggi il conflitto ha altra natura.
In Gran Bretagna il ministro degli Esteri, David Miliband (suo nonno, Samuel Miliband, era un comunista di Varsavia, militare dell'Esercito rosso, prima di lasciare l'Urss di Stalin per il Belgio), ha avuto un'espressione più giusta dicendo che la Russia aveva ritrovato «un approccio alla politica da XIX secolo». In bocca a lui era un rimprovero, ma è vero che la fine del comunismo in Russia ha riportato l'Europa a una situazione paragonabile a quella d'allora, quando già il Caucaso era posta in gioco del confronto fra grandi potenze. Le linee di frattura non sono più ideologiche, semplicemente perché la geopolitica ha ripreso i suoi diritti. Potenza continentale contro potenza marittima, rivalità per controllare le risorse energetiche: questi i termini della situazione, le cui ramificazioni vanno ben oltre la Georgia. Ma non c'è solo il ritorno al «Grande gioco» del XIX secolo. C'è il ritorno alla storia.
Dalla fine dell'Urss, gli americani hanno fatto di tutto per non far risorgere la Russia come grande potenza regionale. In questo quadro hanno favorito il transito per Tbilisi del petrolio e del gas del Caspio, e l'instaurazione dell'asse di cooperazione Mar Nero-Caucaso fra Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia (detto Guam) e auspicato l'ingresso nella Nato della Georgia e dell'Ucraina. Oggi sostengono la Georgia, perché lì loro sono di casa. Mikhaïl Saakashvili ha studiato negli Stati Uniti grazie a una borsa del Dipartimento di Stato, prima di lavorare a New York dal 1995 nel gabinetto neoconservatore Patterson, Belknapp, Webb & Tyler. Il suo primo ministro, Vladimir «Lado» Gurtgenidze, ha lavorato a Londra dal 1998 al 2003 per il gigante bancario anglo-olandese Abn-Amro. Il capo del Consiglio nazionale di sicurezza, Alexander «Kakha» Lomaia, nel 2003/04 è stato direttore esecutivo dell'Open Society Georgia Foundation di George Soros. Il ministro della Reintegrazione, Temur Yakobashvili, è un lobbysta pro-israeliano, e il ministro della Difesa, Davit Kezerashvili, è anche cittadino israeliano. E dal 2001 l'esercito è equipaggiato e addestrato principalmente da israeliani.
Ciò spiega perché oggi s'assiste a flusso di linguaggio orwelliano. La Georgia viene presentata come Paese «democratico» e il suo presidente come un paladino dei diritti dell'uomo, mentre in Georgia regna la corruzione e si uccidono, torturano ed esiliano gli oppositori.
L'intervento russo, che alcuni hanno paragonato perfino alla fine della «primavera di Praga» nel 1968, è presentato senza riferimenti all'attacco deliberato lanciato l'8 agosto dalla Georgia contro l'Ossezia del Sud, risoltosi con la strage di oltre mille civili e la semi-distruzione della città di Tskhinvali, vero casus belli che, per il diritto internazionale, bastava a giustificare la replica russa. Gli Stati Uniti denunciano l'«invasione brutale» della Georgia, esigendo che se ne rispetti l'«integrità territoriale», da loro per primi negata alla Serbia, e condannano il «separatismo» di osseti e abkhazi, avendo per primi incoraggiato quello dei kosovari. Si stupiscono che i russi s'inquietino vedendoli installati nella loro tradizionale zona d'influenza, mentre non hanno mai ammesso la comparsa di un governo ostile nell'area latino-americana. S'indignano che il Cremlino s'opponga all'eventuale entrata dell'Ucraina nella Nato, ma non avrebbero mai accettato che il Canada o il Messico aderissero al Patto di Varsavia. Protestano di non voler «circondare» la Russia, ma nessuno può credere nemmeno per un istante che abbiano concluso con Polonia e Cechia l'accordo sulle basi di missili antimissile, a poche centinaia di chilometri da Mosca, per proteggersi dall'Iran.
Questa sagra dell'ipocrisia non sarebbe grave se l'Unione Europea capisse le poste in gioco e si svincolasse dalla retorica di Washington. Ma non lo fa. Sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, l'Ue s'è subito detta solidale con la Georgia - posizione certo puramente verbale, ma che s'unirà a misure di sostegno economico e finanziario, come deciso dai membri dell'Ue riuniti a Bruxelles -, mentre suo primo scopo dovrebbe essere allearsi durevolmente alla Russia, suo maggiore partner economico, che, sul piano geopolitico come su quello della sicurezza, appartiene come lei al «blocco continentale».
Le virulente denunce dell'azione militare russa mostrano la prontezza di riflessi dei neoconservatori fra i foreign policy intellectuals americani. Nell'immediato, tali denonce saranno seguite da pochi effetti, infatti gli americani temono troppo che si formi l'asse Mosca-Damasco-Teheran (del resto gli europei sanno di dipendere dalla Russia per le forniture di gas). In caso d'elezione di John McCain, però, c'è da aspettarsi che i rapporti russo-americani peggiorino. McCain, che detesta Putin, è infatti da tempo un acceso sostenitore di Saakashvili, che ha incontrato a Tbilisi fin nel giugno 2005 e che l'anno dopo ha perfino proposto (appoggiato da Hillary Clinton) per il premio Nobel per la pace! Non è un caso che uno dei suoi principali consiglieri di politica estera sia Randy Scheunemann, lobbysta a lungo pagato da Saakashvili per favorire l'ingresso del suo Paese nella Nato.
Sola vera incognita è sapere perché la Georgia abbia attaccato l'Ossezia del Sud l'8 agosto.
(Traduzione di Maurizio Cabona)
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