«Lavoro per schiavi», così il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha definito quel che accade in Cina. Secondo Pompeo, lavoro forzato è una formula troppo edulcorata rispetto a quello che il regime di Pechino sta combinando.
Lo stato-partito cinese ha di fatto istituzionalizzato la schiavitù, l'ha portata su scala industriale e ha offerto schiavi a compagnie straniere. Schiavi a bassissimo costo, raccolti, senza fatica né rumore, tra le minoranze religiose.
L'Australian Strategic Policy Institute, in un rapporto intitolato Uiguri in vendita, ha accusato Pechino di aver costretto oltre 80.000 uiguri e altre minoranze musulmane a lavorare da schiavi per 82 noti marchi globali tra cui Apple, BMW, Gap, Huawei, Nike, Samsung, Sony e Volkswagen.
La cifra stimata è prudente, quella effettiva è probabilmente molto più elevata. Nelle fabbriche, lontano da casa, vivono gli schiavi moderni: dormitori e segregazione, una formazione ideologica, cinese e comunista organizzata al di fuori dell'orario di lavoro, sottomissione a sorveglianza costante, impossibilità a partecipare alle cerimonie religiose.
Siamo nella regione autonoma che oggi i cinesi chiamano Xinjiang - «nuovo possedimento» - dove giocano esattamente il ruolo della potenza coloniale. Dal 2017, oltre un milione di persone è stato privato della libertà personale e rinchiuso in «campi di rieducazione» a causa della fede, in quello che alcuni esperti definiscono un programma sistematico di genocidio culturale guidato dal governo.
«Lavare i cervelli, pulire i cuori, sostenere il diritto, rimuovere ciò che è sbagliato», è il motto dei campi di lavoro forzato. Proprio come l'ideologia comunista vuole e come le terribili campagne di rieducazione del pensiero di massa di Mao Tse-tung hanno fatto scuola. Detenuti con la forza e in condizioni disumane, questi nuovi schiavi hanno la quotidianità divisa in due: il giorno è per il lavoro, la notte per l'educazione patriottica.
Dopo la scoperta delle 13 tonnellate di capelli umani , prelevati da internati in uno dei campi di concentramento cinesi, di alcune settimane fa - un carico illegale del valore stimato di 800.000 dollari fermato a New York - ecco che il rapporto ASPI pubblica l'ennesima prova dei campi su cui regime di Pechino continua a mentire.
Il rapporto denuncia una nuova fase nella campagna di reingegnerizzazione sociale della Cina rivolta alle minoranze religiose, rivelando nuove prove circa quelle fabbriche che utilizzano il lavoro forzato uiguro nell'ambito di un programma di trasferimento del lavoro sponsorizzato dallo Stato che sta contaminando la catena dell'economia globale.
Il procuratore generale William Barr ha criticato le società statunitensi implicate in questa brutta storia, sostenendo che le aziende che godono della protezione degli Stati Uniti dovrebbero sostenere i valori statunitensi. E invece il traffico di persone e la schiavitù moderna stanno dietro tanti prodotti a marchi noti che, complici del regime comunista di cinese, secondo quanto i documenti intercettati dall'ASPI denunciano, sfruttano le minoranze religiose per maggiori profitti.
Le accuse del rapporto contro la Nike sono dannose. «Una fabbrica nella Cina orientale che produce scarpe per la società statunitense Nike è dotata di torri di guardia, recinzioni di filo spinato e cassette di guardia della polizia», si legge.
Quella fabbrica, a Laixi nella provincia di Shandong, è gestita dalla Qingdao Taekwang Shoes Co., di proprietà della Corea del Sud, che impiega circa 700 lavoratori uiguri, molti dei quali donne, che il governo cinese ha definito «arretrate» e «disturbate dalla religione».
Una struttura, fornitrice Nike da oltre tre decenni, che produce circa otto milioni di paia di scarpe ogni anno. È una delle maggiori produttrici di calzature del marchio e dedica gran parte della sua produzione all'iconica società statunitense.
Nel gennaio 2020, circa 600 lavoratori delle minoranze etniche dello Xinjiang erano impiegati presso Qingdao Taekwang Shoes Co. Ltd, secondo il rapporto ASPI costruito su documenti in lingua cinese open source, analisi di immagini satellitari, ricerca accademica e rapporti dei media sul campo. Dopo la denuncia, la Nike è corsa ai ripari con smentite generalizzate in diverse dichiarazioni da marzo, l'ultima è stata «Dichiarazione Nike sullo Xinjiang».
Anche il Washington Post ha indagato sulla storia e a gennaio ha pubblicato le foto del complesso dotato di torri di avvistamento, filo spinato, lavoratori liberi di camminare intorno la fabbrica, ma monitorati da telecamere a riconoscimento facciale.
Secondo un avviso del governo provinciale dello Xinjiang del 2018 c'è un enorme sistema dietro. Le fabbriche che reclutano questo tipo di «lavoratori» in tutta la Cina sono compensate dal governo dello Xinjiang, ricevendo un incentivo in contanti di 1.000 yuan (144 dollari circa) per ogni lavoratore. Il salario minimo legale a Urumqi, la capitale regionale dello Xinjiang, era di 1620 yuan (232 dollari) al mese nel 2018. Negli ultimi anni sono apparsi online anche annunci di «manodopera uigura sponsorizzata dal governo».
Secondo l'ASPI, ci sono fabbriche che sfruttano la manodopera uigura che lavorano per Adidas e Fila, ma anche Apple. Stupisce come mai per lo schiavismo e il colonialismo del regime comunista nessuno si metta mai in ginocchio.
In giugno, il presidente Donald Trump ha firmato, per iniziativa del senatore cattolico Marco Rubio, lo Uyghur Human Rights Act 2020, condannando le «gravi violazioni dei diritti umani di determinati gruppi di minoranze etniche musulmane nella regione dello Xinjiang in Cina» e provando a fermare la complicità con Pechino. Si è trattato del primo atto politico formale di un governo occidentale a tutela dei musulmani uiguri perseguitati dal regime comunista cinese.
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