Se un giullare stravolge il copione del Pd

I dirigenti democratici nello scompiglio: dopo aver inneggiato al "partito aperto" ora escludono Grillo. Sembra di assistere allo spot di una democrtazia diretta all'amatriciana

Se un giullare stravolge il copione del Pd

Roma - Eravamo partiti dalla neo-parrochia politicamente corretta (ma praticamente corriva) di Dario Franceschini, ci eravamo imbattuti strada facendo nella bocciofila di Pierluigi Bersani, eravamo approdati, già un tantino stremati, alle corsie della clinica di Ignazio Marino, quella - forse più congeniale al clima - in cui il Pd si ritrovava sdraiato sul lettino del chirurgo. Adesso, grazie ai sedici euro versati ieri da Beppe Grillo nella sezione di Arzachena come se fossero il biglietto d'ingresso di una arena estiva (vai a capire se davvero, dietro questa sottoscrizione parca si nasconde il demone della genovesità) siamo arrivati alla drammaturgia di un palcoscenico, all'esplosione di una rappresentazione grottesca, se non di una farsa.

Solo che ad aggiungere l'elemento teatrale al travaglio congressuale del Pd non è l'autocandidatura seriosissima e dirompente del più sulfureo comico italiano, ma il canovaccio di improvvisazione a cui la mossa di Grillo sta costringendo i massimi vertici del partito. Tutti in imbarazzo, a partire dal povero Piero Fassino, costretto a far vanto e pubblicità del fatto che l'uomo del Vaffa day non sarà accettato. In realtà, un insospettabile filo conduttore unisce lo scandalo che si agita intorno al nome di Luca Bianchini - il segretario coordinatore di circolo ex Margherita indicato dagli inquirenti come il presunto stupratore del Torrino - e le barricate che si stanno sollevando per impedire a Grillo di correre per la leadership. C'è qualcosa che unisce lo sconcerto dei militanti e di Ignazio Marino di fronte all'inchiesta di Roma, alle piccole guerriglie che - statuto alla mano - come tanti azzeccagarbugli, Franceschini e i suoi luogotenenenti combattono per mettere fuori gioco Beppe Grillo.

In realtà, il Pd di oggi, è come il grande spot di uno spettacolo che non c'è: ovvero quello della democrazia diretta e dell'America in salsa amatriciana. Perché non ha senso pubblicizzare sui muri di tutta Italia l'invito a prendere parte al congresso e a iscriversi al partito, se poi su tutti i media ci si cimenta nell'esercizio opposto. Non ha senso dire: apriamo le porte della nostra casa a tutti italiani, se poi in questa casa ci finisce qualcuno che ha il casellario giudiziario macchiato, e se invece - per paradosso - non ci può entrare un grande provocatore progressista come Grillo. Molti oggi dicono, criticando Marino per la sua polemica sul nome del giovane sospettato: come avrebbero mai potuto prevedere, i dirigenti della ex Margherita, che dietro la riservatezza di Bianchini si nascondesse una doppia vita da stupratore?

In realtà la domanda è posta male, e sarebbe quella sì sciacallesca. Ma andrebbe riformulata così: in quale partito (se non in crisi di identità) un personaggio come Bianchini sarebbe potuto diventare un dirigente locale? Semplice: in nessuno. E non per la doppia vita occulta del segretario del Torrino: ma proprio per quella pubblica. Tutte le cronache ci raccontano di un iscritto timido, riservato, favorito dal carisma del padre (di cui era stato vice), ultimo proconsole di un noto dirigente romano, coordinatore di un circolo di 150 iscritti, quasi una nave fantasma nella periferia della metropoli tra il raccordo anulare e il nulla. Nel Pci, ma anche nella Dc, un tipo così non avrebbe fatto carriera: i segretari dei vecchi partiti popolari erano leader di quartiere, micro-urbanisti, dirigenti carismatici, figli di piccole grandi lotte per le scuole, per le strade, per la casa o per le infrastrutture.

Nel «partito liquido», invece, il segretario di circolo è una sorta di fiduciario che tiene la contabilità per conto del suo Signore, un funzionario invisibile senza curriculum né storia, il gestore di un comitato elettorale che lavora a ritmo stagionale: e che quindi può essere chiunque, anche un anonimo che custodisce un segreto ai suoi stessi compagni. Ebbene, nel partito liquido, se Grillo entra in una sezione e apre lo spettacolo per quale motivo gli si dovrebbe rispondere: tu no, tu resti fuori? Quali sono i criteri di discriminazione identitaria per cui si può essere o non essere accolti come membri del Pd? Diceva Groucho Marx, con una celebre battuta: «Non farei parte di un club che contasse il mio nome fra quello dei suoi iscritti».

Il partito liquido viene messo in crisi da un paradosso opposto: è difficile trovare il motivo per cui qualcuno non dovrebbe far parte di quel club. Per stare nel Pci - a parte il singolare caso di Walter Veltroni, che dice di non esserlo mai stato - bisognava infatti essere comunisti: lo si poteva essere in tanti modi, ovvio, ma il prerequisito c'era, ed era difficilmente aggirabile. Per stare nella Dc, bisognava se non altro sentirsi democratico-cristiano: ed era un'identità così forte, quella dello scudocrociato, da sopravvivere alla fine di quel partito. Ma per essere democratico? Se il congresso del Pd viene pubblicizzato come un concorso a premi a cui chiunque può prendere parte purché si iscriva entro i limiti previsti dal bando, quali strumenti hanno, i dirigenti del partito, per negare il loro palcoscenico al grande saltimbanco? Se ne fa parte Paola Binetti, socio numerario dell'Opus Dei, perché non ne dovrebbero fare parte i grillini?

A Tonino Di Pietro e a Marco Pannella (a cui pure in altri momenti si chiedeva di affiliarsi alla grande famiglia!) si disse, per tenerli fuori dalla competizione, che la loro appartenenza a un altro partito era incompatibile con la loro adesione. Ma può una forza che ha l'ambizione della «vocazione maggioritaria», chiudere le porte a coloro che dice di voler includere nel suo progetto? Ecco perché il Pd forse ha davvero bisogno di una terapia d'urto come quella che gli propone Ignazio Marino: una terapia dolorosa, perché non mediata dalle sinecure del politichese. Oppure è costretto a inseguire la via del ritorno alle origini che gli prospettano Bersani e D'Alema: l'elogio del vecchio apparato («Invincibile, diciamo», per il leader Maximo) e quella del vecchio circolo in cui tutti si conoscono, e in cui le regole sono chiare, perché a redigerle sono gli stessi fondatori.

Dietro il paradosso Grillo, e dietro il darkside di Bianchini, invece, si agita il canovaccio di uno spettacolo diverso. Il sogno del Pd di Veltroni e Franceschini e il rito delle primarie aperte a tutti, avevano un’ambizione smisurata, quella di essere come un concerto rock a cui chiunque può prendere parte, purché paghi il biglietto. Se chiuderanno la porta a Grillo, Franceschini e Veltroni tradiranno il più antico comandamento dello spettacolo: The show must go on. E consegneranno al mattatore anti-sistema, ancora una volta, la loro scena.

Se il Pd fosse un partito che non ha paura del suo vuoto identitario, Grillo entrerebbe nella sezione di Arzachena, pagherebbe i suoi sedici euro, e prenderebbe uno zero virgola, come il contadino no global Jose Bovè quando si candida all'Eliseo. Mentre se i dirigenti del Pd temono che possa vincere, vuol dire che c'è qualcosa che non va nel loro copione.

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