Ai Weiwei e la "Turandot" senza trionfo dell'amore

Il regista spiega la scelta sulla chiusura dell'opera sulla tiranna: "Anche Puccini avrà dubitato..."

Ai Weiwei e la "Turandot" senza trionfo dell'amore

Roma. Le coincidenze impressionano. Un celebre artista cinese, dissidente e attivista a favore dei diritti umani, firma la regia di un'opera su una tiranna da favola che opprime un popolo. Accanto a lui, due artiste del popolo oggi oppresso da un tiranno autentico. Ai Weiwei e Turandot. Già due anni fa l'ammiratissimo pittore-scultore-fotografo-architetto-musicista asiatico avrebbe dovuto portare sulla scena dell'Opera di Roma l'estremo capolavoro pucciniano: «ma poi esplose il Covid - racconta lui - e lo spettacolo saltò. Oggi però il mondo non è più quello di allora. Nel frattempo c'è stata la pandemia con milioni di morti; e ora la guerra in Ucraina, con tre milioni di fuggitivi».

Inevitabile dunque che la Turandot che debutterà martedì 22 e sarà proposta il 24 da Rai5, diretta dall'ucraina Oksana Lyniv (prima donna sul podio del Festival di Bayreuth) e interpretata da un'altra ucraina, il soprano Oksana Dyka, risulti «molto diversa - spiega Ai Weiwei - da quella pensata due anni fa. Tutto ciò che è accaduto nel frattempo è infatti confluito nella nostra attuale interpretazione. E ora io ho immaginato l'opera di Puccini in un contesto globale e globalizzato: la scenografia accennerà a una grande mappa della Terra e, assieme, alle rovine della città che ci ospita, Roma, come simbolo del mondo contemporaneo, che con la guerra distrugge il proprio passato, perdendolo per sempre».

Figlio di un poeta già condannato dal regime comunista di Mao, a sua volta arrestato e costretto all'esilio in Portogallo, il famoso performer cinese dichiara che questa sarà «la prima e unica volta che curerò la regia di un'opera. Infatti si tratta per me della chiusura di un cerchio: trentacinque anni fa, quando vivevo senza un dollaro a New York, per guadagnare qualcosa e sfamarmi con gli hot dog feci la comparsa nella Turandot allestita al Metropolitan da Franco Zeffirelli. Facevo l'assistente del boia, al primo atto. Così oggi essere qui mi sembra un sogno; da comparsa a regista!».

Ma al di là del motivo sentimentale, che qualcos'altro lo abbia spinto a misurarsi per la prima volta con il teatro è confermato dalla singolare decisione di eseguire la partitura pucciniana senza il finale scritto da Franco Alfano. Di chiudere cioè lo spettacolo con la morte di Liù, senza la «conversione all'amore» e l'apoteosi finale che quella morte provoca nella crudele principessa. Che il perseguitato Ai Weiwei non creda - anche per esperienza personale - nella conversione dei tiranni? «Questa è una domanda cui è molto difficile rispondere. Nell'arte l'amore viene spesso descritto come emozione assoluta, tale da non lasciare spazio a dubbi. Mentre invece io credo che in Puccini, proprio al momento di musicare questo grande finale d'amore, il dubbio si sia insinuato. Egli deve essersi chiesto: qual è il costo dell'amore? Fino a che punto può davvero arrivare l'amore? Non è riuscito a rispondersi. E, come tutti sanno, il finale non è riuscito a scriverlo».

Pienamente condivisa, dalla direttrice d'orchestra Lyniv, l'insolita scelta registica: «Turandot non è solo la storia di una despota crudele e di un principe coraggioso. È anche la storia di un popolo, incarnato dal coro, che si lascia intimorire e insieme sedurre da quella despota. Lasciandolo aperto, noi facciamo in modo che il pubblico sia libero d'immaginare il finale che preferisce». Non basta: anche per Ai Weiwei l'attualità del soggetto si ritrova nei sentimenti cantati dal coro: «Mescolati al popolo ci sono dei rifugiati che hanno perso la propria patria, e che subiscono il fascino ambiguo di Turandot. Lei li soggioga, loro la temono. Ma, in un certo senso, ne subiscono anche il fascino». In questo modo il capolavoro pucciniano «da una parte racconta la visione estetizzante dell'antico Oriente, così come l'immaginava l'Occidente nel '900. Dall'altra il lato pericoloso dell'amore. Viene infatti da chiedersi: da dove nasce la violenza di Turandot? Dalla violenza che subì la sua antenata. Perché è fatale e, anche questo, più attuale che mai: la violenza genera altra violenza».

L'intera compagnia di canto, completata da Michael Fabiano (Calaf) e Francesca Dotto (Liù) è rimasta fortemente scossa dalla tragedia che si è abbattuta su alcuni teatri ucraini: quello di Odessa protetto dalle barricate, quello di Leopoli bombardato, quello di Mariupol distrutto nonostante facesse da rifugio ai bambini. «Ciò che sta accadendo in Ucraina - conclude il regista - è davvero incredibile.

Che si arrivi a un terribile conflitto armato solo a causa di divergenze geografiche è assurdo. Questo ci spinge a interrogarci sul significato che oggi hanno parole come amore, vita, pace. Ma forse l'opera può davvero essere un veicolo per difendere la nostra visione della vita. E anche il valore della pace».

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