"All'inizio pensavo fosse di serie B. Poi capii che era un grande artista"

Il «suo» regista d'elezione: «Carlo subì una forma di razzismo»

"All'inizio pensavo fosse di serie B. Poi capii che era un grande artista"

Era l'attore preferito di Pupi Avati, Carlo Delle Piane. Ed è stato proprio il regista bolognese, ora sugli schermi col film Il signor Diavolo, a farlo tornare sul set nel 1977, dopo una lunga pausa. E, come sempre accade per i personaggi scelti da Avati, amante dei ribaltamenti di ruolo, per l'interprete fu una memorabile svolta: da caratterista a protagonista.

Com'è stato il suo primo incontro con Delle Piane, amico prima che suo attore-feticcio?

«Naturalmente, è stata una sorta di scommessa. Dovuta a mio fratello Antonio (produttore dei film di Avati, ndr), che già conosceva Carlo. Io, invece, non lo volevo».

Perché non lo voleva?

«Con un po' di razzismo, pensavo fosse precipitato in un cinema di serie B. Mio fratello, conoscendolo, mi convinse che Carlo fosse meritevole d'una chance. Così, un giorno, me lo fece trovare già in costume. Con un impermeabile alla Bogart e il cappello floscio... Crollarono i miei pregiudizi: mi misi a ridere. E quando ridi, significa che funziona. Decisi che lo avremmo imbarcato in Tutti defunti... tranne i morti».

Qual è il film della vita di Carlo Delle Piane, col quale lei ha girato una quindicina di film?

«Senz'altro Una gita scolastica, diretto da me. È il film della sua vita: grazie ad esso scoprì d'avere quella vena drammatica, che l'ha lanciato come protagonista di valore. Era un attore capace di mettersi sulle spalle un film».

Esiste una forma di razzismo, nel cinema, verso alcuni personaggi?

«C'era una forma di razzismo, molto diffuso, nei confronti di Carlo. Anche da parte dei distributori. A volte, abbiamo dovuto occultarne la presenza nel cast. L'ambiente non lo ha mai accettato. Solo perché aveva il naso storto e gli occhi sbarrati. Tutta questa generosità nel cinema popolare, finita l'epoca d'oro di Totò, De Sica e Sordi, non esiste. È doloroso, ma è così. E sono molto riconoscente a Ermanno Olmi, grande regista che lo incluse in un episodio del film Tickets».

Negli ultimi giorni vi siete visti?

«Sono andato a trovarlo con mio fratello Antonio. Era provato. Mio fratello sostiene che non capisse più quanto gli veniva detto. Però, quando Antonio gli ha detto: Guarda che Pupi ti sta scrivendo un personaggio, lui ha fatto un sorriso. È la cosa più bella che puoi dire a un attore, che stai scrivendo qualcosa per lui».

Il pubblico lo amava, l'ambiente del cinema meno. È la stessa spaccatura tra popolo e governanti...

«Il pubblico, infatti, amava l'artista, che invece era escluso da queste lobby di supponenti».

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