C'è un laboratorio milanese che in questo periodo sforna a getto continuo conigli, giraffe, corvi, galline, scimpanzé e altre forme non necessariamente animali (anche nuvole con fulmini incorporati, evanescenti trofei di caccia e persino un ciclopico, smaterializzato grappolo d'uva). È lo studio di Benedetta Mori Ubaldini, che lavora a ritmo serrato per designer e architetti. Ma l'apprezzamento commerciale per la natura ineffabile delle sue creazioni senza struttura, come idee che hanno appena trovato nell'aria una loro apparente ed effimera solidità, non deve far dimenticare che Benedetta incarna per molti versi l'archetipo d'artista più antico che conosciamo.
Dopo essere stata restauratrice e performer, negli ultimi anni è riuscita a mettere assieme le sua attitudini più marcate, manualità e ludicità, grazie alla scoperta delle potenzialità offerte da un materiale, la rete metallica, che trova normalmente applicazione in scultura come elemento volumetrico, ma che invece lei utilizza per far coincidere nella forma involucro, anima e struttura dei suoi pezzi.
Esistono oggi molti scultori che realizzano animali, alcuni da una prospettiva iperrealista, altri con una tensione espressionista, altri addirittura perché attraverso i propri bestiari provano a parlarci del rapporto tra l'artista e la società. Benedetta Mori Ubaldini non fa nessuna di queste cose. Di più, i suoi corvi e i suoi conigli sono persino privi degli occhi e di quegli elementi antropomorfizzanti che, da Disney in avanti, ci hanno abituato a cercare nell'animale un interfaccia famigliare.
John Berger scriveva che in natura lo sguardo della bestia non contempla l'uomo, e in questo senso non ci sono animali più realistici di questi, anche se la vita loro assegnata è apparentemente quella neoplatonica delle pure idee. C'è però qualcosa in più, ed è la somiglianza di queste sculture con le pitture che i nostri antenati lasciavano sulle pareti delle caverne: il gesto di raffigurare un animale coincide con il primo atto magico compiuto da un uomo.
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