Venezia - È il più bel omaggio che si potesse fare a Michael Jackson. L'ha realizzato Spike Lee con Bad 25, oltretutto uno dei film più belli visti sinora alla Mostra del cinema di Venezia. Un altro è quello - sempre musicale - di Jonathan Demme sul nostro Enzo Avitabile. Due documentari che mettono in crisi i film di finzione, ma questa è un'altra storia.
Quella che invece vuole raccontare Spike Lee è la nascita - quasi una radiografia con vivisezione - di uno dei dischi più importanti di Michael Jackson, Bad, a 25 anni esatti dalla sua uscita (la Sony il 18 settembre farà uscire in tutto il mondo un cofanetto celebrativo). Perché è l'album successivo alla consacrazione mondiale di Thriller, entrato nel Guinnes dei primati come il più venduto della storia, quello col quale vuole dimostrare di potercela ancora fare, da solo. Siamo nel momento in cui Jacko, affrancatosi dalla famiglia, investe gli enormi capitali acquistando i diritti di tutto il catalogo dei Beatles e inizia a crearsi la sua Neverland che poi gli porterà anche dei guai legati alle accuse di molestie sessuali su minori. Ma, fin dal primo minuto del film, si capisce che il regista afroamericano sceglie di scindere completamente il ritratto dell'artista da quello dell'uomo.
Abbandonando quindi completamente i lati più controversi che hanno accompagnato la figura di Michael Jackson fino alla morte avvenuta tre anni fa e concentrandosi invece solo sul processo creativo del musicista e sulla sua straordinaria etica del lavoro. «Perché - spiega il regista che nel 1996 aveva diretto il video della canzone They don't care about us da HIStory: Past, Present and Future - Book I - noi vediamo sempre e solo l'opera finale ma non il sangue, il sudore e le lacrime che stanno dietro». Così, seguendo una per una tutte le tracce che compongono Bad, alternandole a immagini di repertorio, ai video musicali (in realtà veri e propri film corti come amava definirli Jackson affidandoli a registi come Scorsese) e alle interviste a decine di collaboratori (tra cui lo storico collaboratore Joe Pytka e il produttore Quincy Jones), Spike Lee riesce, con un ritmo interno del racconto cinematografico che si trasforma in forza espressiva straordinaria, a rimettere insieme il puzzle che portava Michael Jackson a essere Michael Jackson. Ossia un grande cantante e un originalissimo ballerino che con le sue movenze è entrato nell'immaginario collettivo globale. Il suo segreto? «Michael voleva sempre migliorare.
Dopo Thriller si è impegnato tantissimo perché Bad vendesse ancora di più. E poi, come mostro nel film, in un foglietto aveva scritto: Studiare i grandi per diventare più grande a mia volta. Prendeva spunto dagli amati Fred Astaire e Gene Kelly. Ma quando saliva lui sul palco ai concerti, come a Wimbledon, sembrava attraversato dalla musica e non faceva più parte di questo mondo, stava in un altro pianeta», dice Spike Lee. Che nel documentario inserisce un passaggio molto bello in cui tutti gli intervistati sono chiamati a rispondere alla domanda su dove si trovavano quando è morto Michael Jackson, un po' come capita - su scala diversa - con l'11 settembre. Un montaggio di volti, anche noti, come quelli di Mariah Carey, Kanye West o Justin Bieber che, spesso, non riescono a nascondere le lacrime e un po' di disperazione. La stessa che Spike Lee confida di aver provato per mesi in cui non faceva altro che ascoltare la musica di Jacko.
Tanto da aggiungere: «Questo mio lavoro è un atto d'amore verso di lui. La verità è che io sono cresciuto vedendo le sue performance, prima con i Jackson Five e poi da solista. L'ho amato davvero. Sognavo proprio di essere lui».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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