Artistar, attori, mafiosi Jay-Z mette in scena il supercafonal del rap

Nel nuovo cd, testi e musiche avventurose per cantare il Gotha della cultura pop. Dove Jeff Koons va a braccetto col Padrino

Artistar, attori, mafiosi Jay-Z mette in scena il supercafonal del rap

Altro che Wikipedia. Qui in questo disco ci sono cronaca e cultura. Megalomania e provocazioni. Cafonal e Louvre. Di certo Magna carta... Holy grail, che il primo giorno di pubblicazione ha venduto un milione di copie, non sarà il disco migliore di Jay-Z, anche se è il tredicesimo consecutivo a debuttare al primo posto della classifica americana. Ma è perfetto per capire nel bene e nel male lo zeitgeist, lo spirito del nostro tempo dalla a alla zeta. Tutto in modo volatile, naturalmente, e raccontando situazioni che al confronto la Roma di Umberto Pizzi su Dagospia è chic.

Jay-Z, marito di Beyoncé e quindi contitolare della coppia più ricca dello spettacolo (un miliardo di dollari in due) ha sublimato lo spirito del rap, esagerato per natura e cronista per temperamento, diventando il primo iconoclasta delle icone rap. Le cita. Ma in fondo le disinnesca. E non è un caso che il titolo del disco metta insieme la Magna Carta di Giovanni Senzaterra con il Sacro Graal, roba da surclassare l'amico/nemico Kanye West che si è limitato a intitolare a Gesù (Yeezus) il suo disco (appena uscito ma precipitato in classifica americana con un calo delle vendite dell'80 per cento in una settimana: da 327mila copie a 65mila). Dopotutto a luglio la copertina di Magna Carta rimarrà esposta alla Salisbury Cathedral con una delle quattro copie originali della Magna Carta.

Kanye West evolve. Jay-Z destruttura, per dirla con parole alla moda. Non aggiunge nulla ma decompone e, forse, a modo suo, rinnova la mappatura del genoma rap.

I rapper sono considerati burini milionari? Bene, in Picasso baby lui vuole «un Picasso nella mia casa, anzi no, nel mio castello», «i palloni di Jeff Koons», «gli abiti di Riccardo Tisci per Givenchy», «un Basquiat in un angolo» e sostanzialmente un triliardo di dollari per «fare una casa come il Louvre o la Tate Modern» perché dopotutto «io sono il Pablo Picasso dei tempi moderni». Capito l'antifona? Il disco di Jay-Z è la rassegna di estremi fatta da un estremista con un senso degli affari che neppure un banchiere: è una piovra degli investimenti promozionali, li diversifica e non fa sconti visto che parla di tutti, cita tutti, raggiunge ogni tipo di pubblico. Jay-Z non è un rapper: è il brand perfetto. Al «dissing» ha sostituito il marketing. In FuckwithmeyouknowIgotit, immaginando l'arrivo a Roma «città dei Cesari» canta «Cent'anni, ciao bella» in italiano prima di spiegare che «mi chiamano Lucky Luciano» e poi citare il Padrino (e ripeterà la citazione in La familia). In Somewhere in America sbertuccia Frank Sinatra «loud as fuck», rumoroso come un caz..., e naturalmente «la capra espiatoria» Miley Cyrus. E se nell'iniziale Holy Grail tira di mezzo Kurt Cobain dei Nirvana e un campionamento di Smells like teen spirit mentre prende in giro Mike Tyson e Thriller di Michael Jackson, in Heaven cita Losing my religion dei Rem in modo da far sentire «emozionato» Michael Stipe.

E' un marketing crossver, trasversale, non si sa quanto artistico ma senza dubbio redditizio. Per capirci, c'è un pezzo intitolato Tom Ford come lo stilista, altro che product placement. E non sarà originalissimo però funziona l'accostamento con uno degli emergenti del r&b, ossia l'ospite Frank Ocean con il film Ocean's Eleven nel pezzo casualmente intitolato Oceans. O il riferimento a Isn't she lovely di Stevie Wonder in Blue. Se aggiungiamo la Christina Aguilera tirata dentro in Chemistry o Bob Dylan in Open letter, il quadro musicale è completo.

Quello cinematografico comprende Stanley Kubrick (in Nichels and dimes), la «merda» di Zoolander di Ben Stiller (Open letter) e i riferimenti alle capacità di guida di Halle Berry (Chemistry). Un elenco così elegantemente volgare e così inesorabilmente credibile da illuminare uno dei pochi dischi che si leggono meglio di un rotocalco e fanno riflettere molto, ma molto di più di un editoriale.

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