Non è facile descrivere il disco di maggior successo nella storia della musica italiana. Non è facile soffermarsi su una tale raffica di capolavori in grado di radere al suolo ogni avversario musicale. E non è facile neppure descrivere come, nel mondo della canzone italiana, esistano un «prima» e un «dopo» La voce del padrone.
E la cosa non riguarda soltanto Franco Battiato. Riguarda un'intera popolazione che si abbandona completamente alla dispersione delle storie (generalmente d'amore, o d'impegno sociale, o di qualunque argomento a tenere insieme il testo) che fino a questo scarto, direi, quasi di paradigma linguistico, hanno dominato il panorama della musica leggera. Battiato, in fondo, non fa che riproporre quello che, in modalità sempre diverse, ha fatto per tutti gli anni precedenti (a parte gli ancora indecisi 45 giri degli esordi), ossia l'evocazione al posto della narrazione.
Battiato, via via in modo sempre più accelerato dopo lo starting point di Fetus e Pollution, non «racconta» niente di «preciso», ma con estrema precisione evoca frammenti di mondi che sono quanto di più prossimo caratterizza la nostra memoria personale.
Quella di ognuno di noi.
«È colpa dei pensieri associativi / se non riesco a stare adesso qui», canta in Segnali di vita, perla di un album in cui ogni brano è perla. Quei pensieri associativi, potremmo dire facendo i colti e passando quindi per le teorie psicanalitiche più importanti del secolo scorso (dal fondatore Freud al suo allievo Jung fino al discepolo indisciplinato Lacan), sono esattamente l'asse portante dei testi (e delle musiche: pensiamo a M.elle le Gladiator) di Battiato. La nostra mente associa termini che hanno un senso convenzionale ma anche un nostro senso privato, legato alle nostre esperienze, alle nostre letture o visioni.
Esattamente un collage di impressioni che fanno sì, come accade nelle sedute psicanalitiche, che i pensieri si associno in modalità sorprendenti e rivelatrici, riportandoci a storie vissute chissà quando (forse mai), e proiettandoci nei molteplici mondi dei sogni, nel caos danzante delle dimensioni possibili.
Battiato ha dunque creato una modalità espressiva inedita nella sua dichiarata visibilità ma sottesa alla comunicazione umana in tutte le sue forme, in ogni epoca e in ogni contesto.
E non è poco.
Che «gesuiti euclidei / vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori / della dinastia dei Ming» siano realmente esistiti (e lo sono) poco importa. Altrettanto vale per «una vecchia bretone / con un cappello di carta di riso e canna di bambù»: cosa significa? Di chi si parla? Ciascuno lo ricostruisce, magari in parte, magari ricavandolo solo dall'accostamento suggestivo dei suoni: poco importa. Importa che Centro di gravità permanente (da cui sono tratti i versi precedenti) viaggi attraverso la molteplice e sterminata vicenda umana alla ricerca di quella realtà profonda che ci permetta di non farci più «cambiare idea sulle cose, sulla gente», pur nel periglio della navigazione, nella vastità del mare. Mare che apre l'album già evocatore di una realtà cosmica e quotidiana allo stesso tempo: Summer on a solitary beach spazza qualunque certezza, anzi ne frantuma l'apparire e, come dal pensiero di un naufrago, o di un aspirante tale, ne lascia al contempo emergere e inabissare la Verità inafferrabile e a tutti comune, per quanto rifratta in infiniti frammenti di un caleidoscopio sempre mutevole.
La musica è ipnotica, fresca, frizzante e, ancora, capace con somma maestria di evocare il mare, di farcelo sentire sopra, dentro, attorno...
Un capolavoro dietro l'altro.
Un'ipoteca per i decenni successivi.
Alla rinfusa, Cuccurucucu, con un impianto decisamente rock, passa in rassegna ricordi giovanili (alcuni strettamente personali: come l'abitudine di farsi la barba con il rasoio elettrico, citata da un Battiato ancora giovanissimo come sua quotidiana prassi) e sbarella qua e là citazioni omeriche e sulla vita sessuale delle native americane, fino a esplodere in un tripudio (tecnica, abbiamo visto, già collaudata però mai efficace come qui) di citazioni dal mondo del rock (compare anche una Ruby Tuesday dei Rolling Stones, che verrà omaggiata una ventina d'anni dopo nel primo episodio della trilogia di Fleurs).
Battiato gioca a sostituire, quasi all'ultimo secondo (se ci fosse una cronologia), la protesta con una sua pantomima ancora più efficace della protesta stessa. Per esempio, il verso iniziale di Bandiera bianca, con il suo «Mr Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare», cita il personaggio a cui Bob Dylan si riferisce in una delle sue canzoni più celebri, denunciando un'assurdità e chiudendo con un'altra citazione sempre dal titolo di un'altra canzone di Dylan.
Non si capisce niente, ed è bellissimo.
Il gioco ha avuto inizio, ed è esilarante: provocazioni improbabili come «A Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata / a Vivaldi l'uva passa che mi dà più calorie». Chi è che parla? Battiato, «contro-redento» sulla via di qualche improbabile Damasco o una di quelle «stupide galline che si azzuffano per niente» di cui parlerà più avanti?
Non è importante. Il ritornello fa capitolare tutti in un nuovo, improbabile e straordinario classico del rock nostrano.
Come nella più «composta», quanto capace di evocare orizzonti di libertà così lontani dal tedio quotidiano, Gli uccelli, con i suoi codici di geometrie esistenziali.
Chiude Sentimiento nuevo, brano che Battiato
avrebbe voluto escludere dalla raccolta in quanto «troppo debole», ma reinserito su consiglio del produttore, quanto mai acuto: una canzone che rimarrà tra le migliori del suo repertorio.
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