Scusi Ruggeri, oggi un esordiente potrebbe avere una carriera coma la sua?
«Non lo so. Di certo rischierebbe di morire di fame».
Perché?
«A me hanno fatto un contratto per cinque album e sono stato messo in condizioni di sbagliare, di crescere, di rischiare. Oggi devi sfondare al primo singolo. E, se ti capita, è poi difficile riuscire ad avere una carriera lunga decenni».
Enrico Ruggeri pubblica il disco La rivoluzione e lo accompagna sui suoi social al «Decalogo della buona musica» scritto dopo aver registrato le nuove canzoni. Regole principali: «Prima di accendere le macchine, il brano va provato e suonato come se dovesse essere eseguito dal vivo», «Sono vietati editing del tempo e autotune a meno che questo sia utilizzato come strumento musicale» e via dicendo. In pratica un manuale d'istruzioni che va in controtendenza rispetto a quasi tutta la musica che gira intorno. «Gli Stones tornano sul palco? Lo meritano più di tanti giovani impreparati». Dopo più di quarant'anni di carriera, La rivoluzione è il primo disco da vincitore del Premio Tenco (ricevuto l'anno scorso con scandaloso ritardo) ed è un condensato di testi da leggere (anche senza musica) e di musica da ascoltare (anche senza seguire i testi). La batteria, ad esempio, sembra incisa negli anni Settanta tanto è asciutta e potente: «Ci abbiamo lavorato tanto. Dopotutto ho sempre pubblicato un disco all'anno. Stavolta, a causa della pandemia, ho aspettato addirittura tre anni».
Comunque lei continua a registrarli. Altri, come Jovanotti, dicono di non sentire più il bisogno di farlo.
«Vedo che anche De Gregori non pubblica da molto tempo. Penso che i miei ultimi cinque dischi siano i migliori della mia discografia. E, se continuo a farli, è perché penso di avere ancora un margine di miglioramento».
In copertina ha messo una foto della sua classe al liceo Berchet di Milano, anno scolastico 1973/74.
«Avevo in mente altre copertine con il mio volto, poi ho rivisto quella vecchia foto della mia classe e improvvisamente mi sono detto: Accidenti, ma sto parlando proprio di questi ragazzi, di questa generazione. E ho deciso di usarla».
Quindi è un disco autobiografico?
«Racconto il passaggio dall'adolescenza alla maturità di una generazione che ha iniziato con i gettoni del telefono e il TuttoCittà ed è arrivata a Whatsapp».
E ora affronta temi delicati come l'eutanasia (dal brano Alessandro).
«Credo che ognuno su questo argomento debba poter decidere per se stesso. Credo che solo quando ti trovi in quella situazione puoi formulare una opinione».
Qualche tempo fa è stato bombardato dai social per aver definito «schiavitù mentale» la scelta di chi ancora usa la mascherina all'aperto.
«Ho usato parole eccessive. Ma trovo pericoloso abituarsi alle restrizioni. Ci si abitua a tutto, è vero. Con il rischio, però, di atrofizzarsi. Se non avessi usato la parola schiavitù sarebbe stato meglio».
Lei parla della sua generazione, che «ha giocato bene ma ha perso la finale». I giovani oggi come scendono in campo?
«Di certo, dopo tanto tempo si inizia a consegnare ai propri figli un mondo peggiore di prima. Malgrado tutte le difficoltà, generalmente i figli stavano meglio dei padri. Chi non si è sentito dire dai genitori: Tu ti lamenti, ma io ho fatto la guerra, ho vissuto la crisi ecc ecc. Oggi il futuro dei ragazzi è all'apparenza meno bello di quanto sembrasse per esempio a noi, quando eravamo ragazzi».
Ai ragazzi torna a piacere il Festival di Sanremo. Lei, che ne ha vinti due, lo condurrebbe?
«Farei soprattutto il direttore artistico, non sono un conduttore ma sono uno che ama raccontare storie, avrei bisogno di qualcuno al mio fianco per condurre. Magari Virginia Raffaele o Nicola Savino...».
A proposito, che fine ha fatto Una storia da cantare che ha condotto su Raiuno con Bianca Guaccero?
«È stato il varietà di Raiuno con gli ascolti più alti dopo Sanremo. Mi dispiace che non mi sia stata data la possibilità di raccontare ancora altre storie».
Adesso torna finalmente in concerto, dal 2 aprile nei teatri.
«E non vedo l'ora».
Ultima domanda: in carriera ha guadagnato molto?
«Sì, specialmente negli anni '80 e '90. Ma il grafico della mia felicità e quello del mio conto corrente non sono mai andati di pari passo».
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