Giovani che partono per cercare fortuna, amanti che si incontrano tra gioia e lacrime, una madre che arriva dal Centro America per aiutare il figlio a combattere la sua battaglia più difficile. Che cos'hanno in comune queste storie? Le vedremo a Hello Goodbye su Real Time da domani, format Warner, prodotto da DueB di Luna Berlusconi per Discovery Italia.
Al timone c'è Pablo Trincia, giornalista, reporter per eccellenza, due volte Premio Ilaria Alpi (nel 2010 con «Infiltrato tra i profughi afghani» e nel 2013 con «Krokodil, la droga che ti mangia»). Nato a Lipsia da padre italiano e madre persiana è un volto storico del programma Le Iene, esperto di lingue e letterature africane. Un giornalista che ha fame di mondo, sempre con la valigia in mano. «Hello Goodbye è molto nelle mie corde, perché stare in aeroporto è come viaggiare da fermi. E' il mio contesto di vita ideale».
Cos'ha messo della sua esperienza giornalistica nel programma?
«Ho scoperto che le storie si possono raccontare anche in posti impensabili, come un aeroporto. Ho sempre creduto che le interviste richiedessero intimità. Ritenevo inconcepibile che le persone riuscissero ad aprirsi in un luogo pieno di carrelli, altoparlanti, luci...»
E invece?
«Invece, in un mondo in cui i nostri interlocutori sono distratti davanti allo schermo di un cellulare, a volte basta un po' di attenzione per creare un'empatia che permetta alla gente di aprirsi ovunque. Soprattutto in posti come un aeroporto, che sono carichi di storie».
Cosa le ha dato, quindi, Hello Goodbye?
«Sono un tipo riflessivo, che ha bisogno di elaborare, programmare. Questo format mi ha insegnato ad afferrare le storie al volo. E ce ne sono passate davvero tante, tra le mani».
Ha qualche aneddoto da raccontare?
«Ho incrociato una badante moldava che accompagnava alle partenze il figlio diciottenne e sua mamma (la nonna del ragazzo), con cui lui era cresciuto. Da quando è nato, sua madre lo aveva visto per due settimane all'anno, mentre lei aveva sempre lavorato qua in Italia. E' una piccola storia che racconta quella di un popolo, delle donne dell'est Europa e delle Filippine, che si ritrovano con il dramma di crescere figli di altri al posto dei loro»
Altre storie, invece, l'hanno divertita?
«Due ragazze che aspettavano dei ragazzi conosciuti in chat. Appuntamenti al buio con un grande punto interrogativo».
Che affinità c'è tra il giornalismo d'inchiesta, di cui si è spesso occupato, e un format come questo?
«Il dialogo con le persone, l'empatia. E' lo stesso sport. Ho trovato molte affinità tra Hello Goodbye e Le Iene, per esempio. Entrambi danno del tu alle persone e hanno un linguaggio diretto».
Come se la passa il giornalismo italiano?
«Il mio giornalismo di riferimento è quello americano. Il nostro è molto di osservazione, spesso superficiale, formale. Come dice Davide Parenti (autore e ideatore della versione italiana de Le Iene) i giornalisti scrivono solo per giornalisti, non per i lettori. Eppure noi tutti, per natura siamo affascinati dalle storie, dal cuore di una narrazione. Un programma come Le Iene parla alla gente, al pubblico e non servono termini troppo elaborati. Ho applicato questo metodo anche in Hello Goodbye».
Lei sa molte lingue.
«Ne so otto: di certo ho sbagliato lavoro, avrei dovuto concentrarmi su una carriera accademica. Le lingue sono il mio rifugio, le apprendo facilmente, dopo un po' si affina la tecnica. Conosco inglese, tedesco, francese, spagnolo, swahili, wolof, hindi, portoghese».
Il prossimo viaggio che farà?
«Sono appena tornato dalla Tanzania, in cui sono rimasto per otto giorni. Viaggio molto, ma le condizioni a volte sono estreme. Si lavora continuamente fino a sera, in posti difficili, poi ci si butta a dormire».
Il punto fermo?
«La mia famiglia. Sto con la stessa donna da quasi vent'anni.
E ho due bambini di 7 e 5 anni, Jasmine e Sebastian. Partire a volte diventa un problema, i miei bimbi mi dicono quando torni?. Con la testa vorrei rallentare, ma poi prenoto un biglietto per l'altra parte del mondo. E' il mio lavoro, la mia vita».
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