Quante mamme si sono lamentate di non poter portare i figli all'asilo. Perché giustamente la donna moderna spesso lavora, e l'asilo è un ottimo parcheggio. Le donne lo fanno con freddezza, perché sono abituate, per i papà moderni, diventati ormai più sensibili, diventati ormai donne come vogliono le femministe, accompagnare un figlio all'asilo può essere un trauma. È successo anche a me, benché fossi con la mia compagna, per me era come lasciarla in un campo di concentramento. Fosse per me non l'avrei mandata neppure a scuola, «la educo io», dissi a Maria Sole, la mia compagna, e lei «tu sei pazzo, poi diventa come te».
È per questo che ho letto con sommo piacere il libro di Mirko Volpi Asilo Club, edito da Salani, è la meravigliosa e tragica avventura di un padre moderno che porta il figlio all'asilo, è una storia tragica e scritta con la lingua di un vero scrittore e mai una Murgia riuscirebbe a raggiungere simili vette di vivisezione della propria emotività. No, non è colpa nostra, è solo il progresso, il valore dell'infanzia, a renderci ipersensibili, è che «siamo stati inconsapevolmente cooptati dal secolo, vittime blandamente colpevoli dell'avanzamento delle (pseudo?) conoscenze, delle maternità e delle paternità tardive, delle indulgenze interiorizzate, del rimasticamento di luoghi comuni freschissimi e plastificati, dei troppi diritti per troppi».
Il papà protagonista del romanzo di Volpi voleva essere un padre all'antica, ci avrebbe pensato la madre a tutte le incombenze, «avrei voluto essere un padre così, che alle soglie della pubertà dell'erede entra in casa con gli stivali sporchi di fango e sa che da quel momento, smaltiti da altri i trascurabili anni dell'infanzia, la cui cura non poteva che essere completamente a carico della madre col supporto del restante corteggio muliebre, sa che gli spetta il rude corteggio educativo secondo i vecchi, nebulosi, mitologici, insuperati canoni».
Ma i tempi sono cambiati, e noi papà siamo diventati mamme, anzi mammi, con la differenza che le mamme, probabilmente a livello genetico, sanno essere più dure, noi soffriamo da impazzire. Dunque notti insonni, preoccupazioni a non finire anche per il minimo muso, l'impresa di non far entrare neppure la minima tristezza o consapevolezza della realtà nel nostro bambino, forse coscienti che l'infanzia in fondo è l'unico momento veramente felice, e tanto vale renderlo tale fino in fondo. Per cui anche l'asilo nido diventa una tragedia seria, non come le mamme che mollano il figlio e vanno al lavoro, per noi papà è un dramma, «esperienza in-parlabile, non argomentabile con i diretti interessati, il nido può essere violenza, violenza colorata e gommosa, spesso, inutile dirlo, inevitabile».
Implacabili le analisi di Volpi, che in realtà nell'invettiva riesce a mettere su una vera e propria avventura e anche un'analisi sociologica delle più raffinate verso «noi genitori informati onnipresenti del XXI, protetti prima ancora dei nostri figli dalla modernissima progressiva acutizzazione della sensibilità verso l'infanzia, questo bambinocentrismo diffuso e percepito che ci ha sguarnito le difese e rammollito il sentimento del giusto e dell'inevitabile». Per cui ogni giorno è una lotta, una ferita, un tentativo di evitarne un'altra al nostro cucciolo, ma anche un infittirsi di misteri perché il bambino, tornato dall'asilo, non racconta più niente, e sembra entrato a far parte di una loggia massonica per mantenere chissà quali orribili segreti. È la perdita totale del controllo.
Nel frattempo, nel consigliarvi di leggere questo strepitoso romanzo, vi informo che mia figlia è alle elementari, e anche lì altro trauma, ma le ho imposto di nascondersi un telefonino nello zaino, anche se nella sua scuola è vietato, e Mirko Volpi mi ha convinto che se è vietato chissà cosa nascondono. Le avevo comprato uno di quei telefonini per bambini, che hanno due tasti e puoi chiamare al massimo tre numeri, mamma, papà, la baby sitter, ma mia figlia mi ha detto: «Eh no, voglio un iPhone 12 Pro come il tuo». Andata, tutto quello che vuoi amore, purché tu mi possa chiamare e io mi possa sentire al sicuro. E quando avrà sedici anni? ti dicono tutti, i sadici. E quando avrà un fidanzato? Non mi ci fate pensare, non credo di farcela, credo morirò prima.
Sebbene neppure lei sarà più lei, e anche questo mi fa stare male, sarà una ragazza, crescerà ancora, cambierà, come insegna anche Samuel Beckett nell'ultimo nastro di Krapp e anche le neuroscienze, il nostro io muore ogni giorno, e io, l'io che resterà quando lei sarà grande, mi consolerò dai miei dolori inesprimibili piangendo sulle spalle di Maria Sole, la mia compagna, cioè mio marito.
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