Intervista a Gaetano Liguori, principe del pianoforte jazz italiano

Superati i 70 anni, Liguori guarda indietro senza nostalgia ma con entusiasmo. Lo stesso che lo ha spinto ad affrontare la laurea in teologia cui oramai manca solo la tesi

Intervista a Gaetano Liguori, principe del pianoforte jazz italiano

La casa, nel centro di Milano, è un museo fatto di libri, dischi e dvd e icone della sinistra protestataria, dai disegni rivoluzionari a quelli che raffigurano Lenin e Mao. E' la casa di Gaetano Liguori, principe del pianoforte jazz italiano (Ma non solo) e icona delle lotte sessantottine cui ha partecipato in prima persona. Ora Liguori si racconta, e racconta la musica, attraverso il libro "Il mio jazz", la storia (avventurosa) della sua vita e di riflesso dei grandi musicisti che è riuscito ad avvicinare. Superati i 70 anni, Liguori guarda indietro senza nostalgia ma con entusiasmo, lo stesso entusiasmo che - da rivoluzionario impenitente - lo ha però spinto ad affrontare la laurea in teologia, cui oramai manca solo la tesi.

Come mai la laurea in teologia: si è pentito?
"Un tempo c'era l'impegno rivoluzionario, oggi c'è quello sociale che mi coinvolge in prima persona. Il mio manifesto musicale e ideologico è il brano "Il comandante". La teologia è una sfida affascinante. Ho studiato 5 anni partecipando tutti i giorni a lezioni difficili come ebraico antico o aramaico o esegesi biblica. Io sono uno molto preciso, andavo in università con astuccio, penne, matite, mi sono applicato per cinque anni".

Una soddisfazione.
"Sì, è venuto anche il Vescovo di Milano che si è interessato a me che avevo 70 anni suonavo, studiavo e avevo conquistato lìAmbrogino d'oro, nonostante alcune lezioni dopo pranzo fossero un po' soporifere".


Ora è credente?
"Cito la famosa frase della Bibbia: cercate il regno dei cieli e tutto il resto vi verrà dato in sovrappiù. Poi quando uno ha un obiettivo serio le cose arrivano....altrimenti chi se ne frega".


E ora pubblica la sua storia...
"Più che altro la mia storia del jazz vissuta da protagonista. Perchè ho cominciato negli anni Settanta ma la mia cultura si spinge fino agli anni Quaranta grazie ai dischi che mio padre e mio zio (entrambi musicisti) mi portavano".


Una vita di battaglie.
"Sì ma di grandi soddisfazioni. I miei ricordi risalgono ai dischi di Thelonius Monk che contrastavano con la cultura popolare napoletana di Eduardo".

Un apostata?
"No, un appassionato. Sono arrivato a Milano, in zona Corvetto, e prendevo l'autobus per andare al Teatro Lirico, nei palchi sopra il pianoforte, per guardare Duke Ellington, Oscar Peterson, Earl Hines o ascoltare Ella Fitzgerald"


Ma eravate più per l'avanguardia e per il free jazz. Vi furono contestazioni ai concerti di Ellington e company.
"In realtà contestavamo i borghesi che andavano a sentirli; e i borghesi a loro volta contestavano l'avanguardia di Cecil Taylor e Archie Shepp".

Era dura vivere di jazz?
"Non si viveva di jazz. Io ho avuto la fortuna di entarre in Conservatorio come allievo in seconda media, nel 1962, e di uscirne 5 anni fa da insegnante. Ho studiato composizione col papà di Riccardo Chailly e con maestri straordinari. Canto lo studiai con Riccardo Muti, che allora era direttore del Coro dell'Orchestra del Conservatorio. Ho avuto tanti insegnanti e colleghi leggendari".

E gli esordi nel jazz?
"Il mio primo concerto importante fu a Verona al Teatro Romano nel 1973; pensi che dividevo il palco con Miles Davis, l'anno dopo con Charlie Mingus e l'anno dopo ancora con Elvin Jones. Da lì i racconti di prima mano che porto nel libro".

Nel 1979 ha suonato davanti a 60mila persone.
"Era un grande concerto con tante star in memoria di Demetrio Stratos. Fu un momento storico e la fine di una generazione. Io ero molto impegnato politicamente sulla strada che - per motivi generazionali - aveva aperto Giorgio Gaslini".

E oggi com'è il jazz?
"E' molto diffuso, ci sono decine di Festival e si suona ovunque. Poi ci sono artisti eccezionali come Bollani che riempiono persino la Scala e riescono a fare anche un po' di soldini".

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