L’uomo che vendette la sua pelle, il film diretto da Kaouther Ben Hania e da ieri nei cinema, è una piccola perla sotto tutti i punti di vista. Intellettualmente stimolante e visivamente sofisticato, pone lo spettatore innanzi a uno spettacolo verosimile (il film è ispirato a “Tim”, opera dell’artista belga Wim Delvoye del 2006), in cui si passano in rassegna i cortocircuiti etici del mondo dell’arte e anche alcuni di portata globale.
“L’uomo che vendette la sua pelle” racconta la storia di Sam Ali (Yahya Mahayni), un ragazzo siriano impulsivo ed emotivo, che è costretto a fuggire dalla Siria a causa della guerra in corso. Bloccato in Libano, lontano dalla sua amata Abeer (Dea Liane) che si trova in Europa, non ha modo di raggiungerla. Un giorno, però, durante una delle sue scorribande di sopravvivenza che lo vede mangiar a sbafo ad un vernissage, incontra Jeffrey Godefroi (Koen De Bouw), un americano tra i più noti artisti contemporanei, con il quale stipula un patto. Se come individuo la legge blocca la libera circolazione di Sam, come merce, o meglio come opera d’arte, il problema viene meno: l’idea è quindi di tatuare sulla sua schiena un enorme visto Schengen. In questo modo il ragazzo otterrà un permesso di soggiorno per l'Europa e la ricchezza economica data dal singolare lavoro di esporre se stesso in giro per musei, (sotto la supervisione di una cinica Monica Bellucci in versione bionda). Sembra la svolta dei sogni per Sam, ma ben presto il ragazzo capirà che il confine tra libertà e prigionia è molto più sottile di quel che crede.
Nel parlare di sofferenza e problematiche attuali come l’immigrazione, “L’uomo che vendette la sua pelle” è sferzante e sempre lontano anni luce da retorica o sentimentalismo.
Lungi dal deresponsabilizzare il singolo individuo, il film racconta di una fauna umana che si compiace dell’impunità di cui gode il proprio ambiente, quello dell’arte. Perché all’estro creativo tutto è perdonato, finanche il fatto di avere spesso, come motore primario, lo stesso interesse economico che muove già buona parte del resto del mondo.
La messa in scena elegante e l’intrigante irriverenza sono i tratti distintivi di un’opera che, seguendo la parabola amorosa e artistica di un essere umano “nato dalla parte sbagliata del pianeta”, muove riflessioni audaci. Le ipocrisie del mondo sono derise con sottigliezza e si mostra come avere un sogno esponga ad avere un prezzo.
Sam è concentrato solo sul proprio riscatto e sul raggiungimento dell’amore di una donna, mentre resta cieco e sordo riguardo a tutto il resto: al fatto di offendere la sensibilità dei suoi compatrioti, al fatto che la sua amata abbia un marito, al fatto che sua madre abbia brutti pensieri che non gli racconta. Si crede gallo, ma resta un pollo da batteria come quelli di cui si occupava prima del mefistofelico colpo di fortuna. Cena in camera col caviale e pensa che chiunque vorrebbe trovarsi al posto suo, ma resta un fenomeno da circo e, in quanto tale, sfruttato e dalla dignità annientata. “Se vendo la schiena o il culo sono fatti miei” dirà, conscio che si tratti comunque di una forma di prostituzione. Lo vediamo incedere nella sua vestaglia di seta, scalzo e con tazza di caffè tra corridoi ricolmi di opere d’arte di inestimabile valore, per poi posizionarsi nella sua cripta scura, come un sovrano in trono o come un agnello sacrificale sull’altare, a seconda dei giorni e dell’umore.
“L’uomo che vendette la sua pelle” è un continuo gioco
di specchi (anche visivo) tra autenticità e mercificazione, un viaggio nel paradosso che giunge a compimento in un finale forse un po’ precipitoso.Da non perdere per bellezza compositiva, vivacità e acume.
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