"L'amore di Nino e Rina è qualcosa di immortale come le vere promesse"

In "Lei mi parla ancora" il regista racconta i coniugi Sgarbi come esempio di legame eterno

"L'amore di Nino e Rina è qualcosa di immortale come le vere promesse"

È un viaggio nella memoria familiare, quello al centro del nuovo film di Pupi Avati che, per la prima volta in più di 50 pellicole, non ricorre ai ricordi personali ma a quelli di Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, nato a Badia Polesine nel gennaio del 1921 e morto nello stesso mese del 2018 a Ferrara. Lei mi parla ancora, in onda, prima di arrivare nelle sale, su Sky Cinema lunedì prossimo alle 21,15 e disponibile anche on demand e su Now Tv, è tratto dall'omonimo volume, uno dei quattro che papà Sgarbi detto Nino, amante dell'arte e di professione farmacista, ha scritto con l'aiuto dell'editor Giuseppe Cesaro. «E proprio su quest'aspetto - racconta Avati al Giornale - ho costruito il film, attraverso il personaggio del ghostwriter interpretato da Fabrizio Gifuni che si mette all'ascolto di Giuseppe Sgarbi, impersonato da Renato Pozzetto». Il film inizia con la scomparsa, dopo 65 anni di matrimonio, della moglie Rina Cavallini, interpretata da Stefania Sandrelli. Da lì, «come un tapis roulant del tempo», si sviluppa il racconto di un amore che dalla giovinezza, con la coppia di attori Isabella Ragonese e Lino Musella, va e viene fino ai giorni nostri, disegnando una storia sentimentale dell'Italia altrimenti perduta.

Avati, come ha incontrato questa storia?

«È stato il suo collega Maurizio Caverzan a consigliarmi di leggere il libro. E ha fatto bene. Mi sono confrontato con questo vecchio farmacista novantenne con una storia affettiva e amorosa che un po' somiglia alla mia».

Un teatro della memoria?

«Decontestualizzato, il personaggio di Giuseppe Sgarbi assomiglierebbe ad altri miei film. Qui invece c'è un confronto generazionale e un rimbalzo con il presente continuo».

Come è stato il rapporto con Elisabetta e Vittorio Sgarbi?

«Mi hanno lasciato totale libertà. Ho corso il rischio di fare un film totalmente inattendibile per loro, ho avuto paura che alla prima proiezione si alzassero dicendomi: Che cosa è questa roba?, niente di più facile conoscendo Vittorio. E invece alla fine mi ha abbracciato ritrovando il padre in quello che è un racconto universale sull'assenza».

All'inizio, come protagonista, si era fatto il nome di Massimo Boldi.

«Insieme avevamo girato Festival che non è tra i film che ricordo con più nostalgia, anche perché non aveva ottenuto l'apprezzamento che speravo. Così, un po' com'era successo con Tognazzi, con il quale feci un secondo film per utilizzarlo nel modo migliore, ho pensato di ritentare con Boldi. Abbiamo parlato del progetto ma poi a un certo punto è scappato via».

Ed è arrivato Pozzetto.

«È stato provvidenziale. Renato è estremamente aderente al personaggio. Tanto che oggi non riesco a immaginare nessun altro in quel ruolo».

Nel film c'è un po' del suo di lessico familiare.

«Sì ad esempio l'accenno al fatto che quando si è anziani la cosa che manca di più è non abbracciarsi tanto. Non c'è nel romanzo, è una considerazione di mia moglie di qualche tempo fa. Come pure è mia l'idea della lettera che la coppia giovane si scambia con la promessa di immortalità».

Quest'aspetto pare oggi quasi rivoluzionario.

«Una delle componenti meno apprezzabili del nostro tempo è la precarietà degli affetti. Per questo sono voluto entrare in una sorta di dismisura affettiva. Oggi c'è una prudenza e un timore di esporsi, per sempre sembra essere scomparso dai nostri vocabolari, mentre negli anni '50 era ricorrente. Non solo nelle canzoni o nell'amore, ma anche nelle amicizie e negli oggetti che sembrava potessero esistere per sempre».

A che punto è il suo progetto su Dante Alighieri?

«Sono contento che mi fa questa domanda, proprio oggi pare che siamo riusciti a trovare una quadra produttiva per girare a maggio e rimanere così nell'anno dantesco».

Che Dante sarà?

«La mia idea è farlo raccontare da Boccaccio facendo in modo che il pubblico si innamori di questo ragazzino che a 5 anni ha perso la madre, a 9 conosce Beatrice che poi morirà, dando vita così a una poesia inspiegabile e misteriosa che nasce proprio dal dolore».

E la polemica recente con i tifosi laziali per una frase, «laziale di me», detta da un personaggio a un altro nel suo ultimo libro L'archivio del Diavolo?

«(ride) Mi ha fatto capire quanto siano ancora belle certe forme di tifoseria che non immaginavo esistessero ancora. Ho scritto una lettera di scuse e ho partecipato a due trasmissioni di radio vicine alla tifoseria laziale in cui ho sentito tutto il dolore di queste persone che era come se mi dicessero: Va bene tutto ma per favore non toccare la mia squadra».

La politica la appassiona ancora?

«Come potrebbe essere altrimenti? Il gioco politico è intrigante,

così pieno di colpi di scena che neanche uno sceneggiatore riuscirebbe a immaginare. Bisogna però stare attenti perché, lo so bene avendo una società di produzione, questi giochetti possono avere un prezzo elevatissimo».

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