Nell'area culturale che potremmo definire genericamente laica, non sono pochi i libri che rievocano figure di intellettuali e di politici che, nel nostro paese, hanno segnato la storia del secolo breve. L'Italia civile di Norberto Bobbio (1964), Padri della Patria di Arturo Colombo (1985), I miei maggiori di Alessandro Galante Garrone (1984), L'Italia della ragione di Giovanni Spadolini (1978) sono soltanto alcuni tra i tanti volumi pubblicati da oltre mezzo secolo. Si tratta, per lo più, di una letteratura «nostalgica», volta a conservare il ricordo dei «protagonisti e dei testimoni di un'altra Italia» e, pertanto, non immune da una retorica a volte nobile, talora insopportabilmente ideologica. Al coté positivo di questo genere letterario appartiene il recente bel saggio di Pier Franco Quaglieni, Figure dell'Italia civile (Golem, pagg. 208, euro 16). L'autore, direttore del torinese Centro Mario Pannunzio di cui è stato fondatore con Arrigo Olivetti, Mario Soldati e Alessandro Passerin d'Entrèves disegna una galleria di ritratti suddivisi in due parti: le Radici ideali (da Einaudi ad Amendola, da Calamandrei a Filippo Burzio, da Chabod a Vittorio de Caprariis) e i Maestri e Amici che hanno avuto col Centro rapporti significativi di collaborazione (da Jemolo a Bobbio, da Galante Garrone a Valiani, da Venturi a Romeo, da Spadolini a Ronchey). Il capitolo conclusivo è dedicato a Mario Pannunzio che Quaglieni non ha conosciuto ma che, per una vita, è stato la sua stella polare per virtù civica e saggezza politica. Al di là delle inevitabili lacune e dei limiti della silloge, almeno un merito va riconosciuto all'Autore, quello di non essersi limitato a mostrare aspetti, inediti, inattesi e non conformisti dei suoi maestri e compagni ma di aver evidenziato assieme a «ciò che è vivo» anche «ciò che è morto» nel loro insegnamento. Parlando di Ernesto Rossi, che aveva un alto senso dello Stato e guardava a un'economia di mercato non taroccata, ad esempio, rileva come in lui «ci fosse un'ispirazione giacobina che cozzava con il suo spirito laico e liberale e che riprendeva la vis polemica salveminiana spesso ingiusta ed esasperata» e non mette in ombra episodi sgradevoli della sua militanza politica, come l'accusa rivolta a Chabod per aver reso omaggio nel dopoguerra al più grande storico italiano del Novecento, Gioacchino Volpe o quella mossa a Pannunzio di aver diretto un periodico fascista come Oggi (1939-1942). Del pari, nel commosso ricordo di Alessandro Galante Garrone, Quaglieni accenna, con rara eleganza, ai motivi che, pur nella stima profonda, non gli consentivano di riconoscersi nelle posizioni dell'antico maestro.
Nessuno dei medaglioni pecca di faziosità e mai gli avversari delle sue guide spirituali vengono trattati da reprobi, si tratti di Leo Longanesi o di Giovanni Malagodi. Nella pagine finali, quest'ultimo quasi demonizzato dalla maggior parte dei collaboratori di Pannunzio viene sottratto alla vulgata progressista e, sulla scia di Giovanni Orsina, Quaglieni riconosce oggi che «in molte cose, ad esempio il regionalismo e le nazionalizzazioni, Malagodi seppe vedere molto più lontano di La Malfa». Ineccepibili, altresì, sono le pagine su Bobbio, «un pensatore che ci ha insegnato e praticato il dubbio, la mitezza, il dialogo, la circospezione, la ponderatezza negli anni terribili dei manicheismi ideologici trionfanti» di cui non si ignorano certe faziosità (peraltro riconosciute da Bobbio stesso), su Luigi Einaudi - caro a Quaglieni come liberale e come piemontese - su Chabod lo storico che seppe unire «lo scrupolo analitico al respiro sintetico della composizione», su Calamandrei, su De Caprariis, su Benedetto Croce al quale non è dedicato un capitolo specifico ma che, ancor più di Einaudi, sembra il nume tutelare del Centro Pannunzio (come lo era stato, del resto, del Mondo).
Un libro da leggere, insomma, e da consigliare ai docenti e agli allievi della scuola italiana, nell'età della «morte della patria» come la chiama Galli della Loggia in un saggio che, a differenza di Quaglieni, trovo convincente soprattutto per ricordare che non siamo figli delle tenebre.
Confesso, però, che non sono persuaso dalla tesi che vede una differenza sostanziale tra il Partito d'Azione e il liberalismo di sinistra del Mondo. Per sostenerla, Quaglieni arriva a scrivere che «Guido Calogero, che fu collaboratore assiduo del settimanale di Pannunzio, con il suo giacobinismo libertario e libertino, non si può considerare, a pieno titolo, espressione della comunità del Mondo». In realtà, a parte l'ossimoro del «giacobinismo libertario», la rubrica Quaderno laico di Calogero rappresentò, forse, uno dei momenti liberali più alti del settimanale. E non meraviglia se si pensa che «il filosofo del dialogo» era stato tra i pochi azionisti, prima del 1945, a sostenere che senza partiti in competizione conservatori e progressisti - non può esserci vera democrazia.
Inoltre ho l'impressione che Quaglieni sottovaluti il lato azionistico-antifascista di cui non riuscì a liberarsi neppure un liberale ex monarchico come Pannunzio che vedeva, negli anni '60, avanzare un fascismo assai più pericoloso di quello del '22, con la sostituzione all'«attacco esterno del fascismo allo Stato» dell'«interna degenerazione clerico-fascista dello Stato». Che era poi la legittimazione dell'arco costituzionale.
Negli anni della secolarizzazione della società italiana, in realtà, i problemi erano ben altri ma non potevano venir messi a fuoco senza passare attraverso il ripensamento dell'esperienza fascista, quella che veniva compiendo, tra gli altri, un filosofo cattolico lontanissimo da Pannunzio, Augusto Del Noce, al quale Renzo De Felice, nell'Introduzione a Mussolini il rivoluzionario, attribuiva il merito di avergli aperto gli occhi sulla natura rivoluzionaria del fascismo, incomprensibile a quanti avevano l'ossessione del clerico-fascismo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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