Al telefono gli avevo chiesto: «Jannacci, l'indirizzo se l'è segnato? Sì? Bene, allora la aspettiamo... Arriva in taxi?». E lui: «Sì, sì, arrivo in taxi». Dopo mezz'ora mi aveva richiamato da un luogo imprecisato in Bovisa per avere conferma dell'indirizzo e gli avevo ripetuto via e numero civico. Enzo Jannacci era stato molto gentile ad accettare di cantare nel disco d'esordio dei Selton, un quartetto di musicisti brasiliani che la Barlumen Records (il mio socio Gaetano Cappa e io) aveva messo sotto contratto da poco e che stava registrando Banana à milanesa, album di tributo alla milanesità di Jannacci e Cochi e Renato cucinata in salsa tropicalista. Nessuno, nel 2007, poteva immaginare che sarebbe stata la sua ultima apparizione discografica.
La fama di personaggio dadaista e imprevedibile venava il leggero ritardo di Jannacci di una certa preoccupazione. «Che cosa potrebbe mai combinare attraversando Milano in taxi?», ci chiedevamo. In studio i più tranquilli erano proprio i quattro ragazzi brasiliani. Per loro lui era soltanto un musicista di una certa età che avevano imparato ad apprezzare ascoltando e riascoltando cd di musica italiana per decidere quale cover italiana incidere per il loro debutto. Dopo aver scartato Dalla, Conte, Fossati e De André, i Selton avevano puntato decisamente su Jannacci e su Cochi e Renato, sedotti dalla vena surreale di canzoni come Giovanni telegrafista, Canzone intelligente e Ho visto un re.
Quando il ritardo aveva cominciato a diventare inspiegabile, ero uscito in strada ad aspettare... Continuavo a scrutare verso sinistra alla ricerca di un taxi bianco in avvicinamento e non mi accorsi che da destra, ossia contromano, stava arrivando questa figura che spingeva un vecchio motorino spento. Il casco calato sulla testa rendeva la figura impossibile da identificare, ma dentro di me avevo capito tutto: il palombaro che intralciava il traffico della via procedendo contromano a motore spento era Enzo Jannacci. Capii: al telefono mi aveva detto che avrebbe preso il taxi per depistare i parenti, poi aveva inforcato il «Sì» di nascosto e si era avventurato dall'altra parte di Milano. Guidare alla sua età era rischioso, pensavano loro. E lui, tac, di nascosto. Ancora col casco in testa mi aveva detto, nel suo modo strascicato: «Sono Jannacci, la moto mettiamola dentro che se no me la rubano. Guarda com'è sporca: non l'ho mai lavata!».
Poi finalmente l'ingresso in studio, dove si scatenò l'energia entusiastica di un musicista ultrasettantenne alle prese con quattro colleghi poco più che ragazzi, provenienti da un'altra era geologica e dall'altra parte del mondo. Con i Selton si intese subito a meraviglia nonostante le barriere linguistiche, e dalla session di registrazione vennero fuori una splendida Pedro pedreiro di Chico Buarque (che lui aveva già interpretato) e una travolgente Silvano, incisa tutta dal vivo in una singola take avventurosa al piano, coi quattro musicisti brasiliani intorno al grande vecchio a ripetere in coro il glorioso trisillabo sdrucciolo «Amami» (loro tendevano a pronunciare «Am-mami» e lui a puntualizzare: «Amami, con una emme, non am-mami! E va beh, ma come faccio a trasformare quattro brasiliani in quattro della Bovisa?») e poi a intonare tutti assieme l'indecifrabile - e tuttora indecifrato - verso: «Silvano, non valevole ciccioli». Jannacci teneva il tempo battendo il piede sul pavimento, provocando un battito ritmico che andava a disturbare la registrazione, così mandammo il giovane fonico Michele a piazzare un cuscino sotto il piede del Maestro, il tutto senza interrompere la registrazione che andava avanti come per magia. A un certo punto squillò il cellulare di Jannacci, che non se ne accorse; per miracolo la suoneria era in tonalità e scompariva nella trama generale della musica e prima della fine partì pure la sirena d'allarme di un'auto parcheggiata fuori. La canzone arrivò alla fine integra e bellissima: spontaneo partì l'applauso di tutti, ragazzi, tecnici e produttori.
Si fermò ancora un'oretta a chiacchierare con i quattro Selton, lui esperto raffinato della musica brasiliana, loro incantati dal magnetismo di quell'artista sorprendente. Poi si mise il casco, fece ancora notare a tutti quanto fosse sporco il suo motorino, e ripartì verso Città Studi, stavolta girato per il verso giusto.
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