Si potrebbe dire che Giuseppe Gioachino Belli ha innalzato un monumento alla plebe di Roma e Davide Pettinicchio ha innalzato un monumento a Giuseppe Gioachino Belli, solo che i materiali di quest'ultimo lavoro sono forniti dal Belli stesso e mi riferisco al carteggio che per quanto parziale e mutilo riempie un volume di 1.202 pagine... Quanto scrivevano gli intellettuali pre-telefonici! Ansiosi di comunicare esattamente come noi, diversamente da noi erano privi di computer, smartphone, mail, WhatsApp, Instagram, Facebook e perciò scrivevano continuamente lettere la cui stesura costava parecchio tempo e la cui spedizione costava parecchio denaro. Le poste erano lente e complicate, c'erano quelle statali e pure quelle private ma nessuna funzionava a dovere «giacché non è la prima volta che a me manchino lettere, e manchino a coloro a' quali io le diriggo».
Già si capisce che Epistolario 1814-1837 di Giuseppe Gioachino Belli, curato da Pettinicchio grazie a una borsa di dottorato della Sapienza e pubblicato da Quodlibet grazie a un contributo del ministero per i Beni culturali (che dunque a qualcosa serve), è un monumento al Belli uomo più che al Belli poeta, potrei dire al Belli prosaico visto che le missive sono fitte di problemi pratici, vi si parla di soldi e di salute molto più che di letteratura. E per fortuna, visti gli sbadigli procurati dalle diatribe accademiche (era l'epoca delle Accademie: Belli ne collezionò parecchie, Elleni, Tiberina, Arcadia...). Come scrive il curatore, il volumone contiene «una cospicua messe di informazioni utili» sulla vita del grande poeta e, aggiungo io, sulla vita di un qualunque borghese dell'Ottocento (questo era il mittente dal punto di vista sociale: un borghese romano, spesso in difficoltà economiche ma comunque sempre un borghese). Era un altro mondo eppure il viaggiatore odierno troverà qualche assonanza: «Domenica sera 16 del corrente io arrivai a Tolentino morto di sonno, e non potei trovarvi un buco per dormire un pajo di orette. La festa del beato S. Niccola vi aveva attirato tanta gente dei contorni...». Ecco che una località delle più profonde Marche pontificie somiglia a Milano durante la Settimana della Moda. A proposito di Milano, il poeta romano e romanesco ci arriva nell'autunno del 1828 e ne fa un panegirico manco fosse Stendhal: «Pare stata fondata per lusingare tutti i miei gusti: ampiezza discreta, moto e tranquillità, eleganza e disinvoltura, ricchezza e parsimonia, buon cuore senza fasto, spirito e non maldicenza, istruzione disgiunta da pedanteria, niuna curiosità de fatti altrui, lustro di arti e mestieri; purità di cielo, amenità di sito, sanità di opinioni, lautezza di cibo, abondanza di agi, rispetto nel volgo, civiltà generale». Si muoveva molto il Belli, lo troviamo spesso in Umbria, specie a Terni dove curava interessi di famiglia, e spesso nelle Marche, specie a Morrovalle dove si intratteneva con la marchesina Vincenza Roberti, all'insaputa della moglie attempata, rimasta a Roma. Purtroppo le lettere alla giovane nobildonna non sono scritte con la libertà dei sonetti romaneschi, è già molto se nella numero 94 compare la parola «amore». Il Belli era pudico, trattenuto, caratterialmente e politicamente un moderato: «Io non amo associarmi agli estremi». Consapevole della propria psicologia, arriva a definirsi «spirito pusillanime». Questo spiega la rarità degli accenni ai sonetti romaneschi, che invece pudichi non lo sono affatto. Addirittura ipotizzava di bruciarli, temendo che la pubblicazione gli avrebbe causato più guai che gloria: «Ma sapete come finisce? Uno stampatore ci fa guadagno, ed io vado in galera». Invece nel carteggio non mancano, dirette ai colleghi letterati, prolisse poesie in italiano, e una cosa è certa, se avesse scritto solo queste oggi il Belli sarebbe un carneade come tutti gli altri membri dell'Accademia Tiberina: Antonio Coppi, chi era costui?
Dicevo che più delle beghe accademiche sono interessanti le liste, gli elenchi dei soldi spediti per diligenza alla moglie, che ci permettono di familiarizzare con piastre, papetti e grossetti, monete pontificie, e gli elenchi dei cibi natalizi spediti al figlio in collegio, fra i quali primeggia sempre il pangiallo, oggi distrutto dal panettone. Ma la lettera più bella è la numero 590, l'unica in romanesco e dunque l'unica in cui il poeta si lascia andare.
Invita un amico all'osteria e subito ci ritroviamo nel mondo libero e comico dei sonetti: «Lì faremo bardoria, cantamo li ritornelli, bevemo quer goccio, facemo le passatelle, ballamo er sartarello, tastamo er sedici a quelle paciocche». Potenza del dialetto: mai e poi mai, scrivendo in italiano, il compassato Giuseppe Gioachino Belli avrebbe scritto «tocchiamo il culo alle ragazze».
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