Non scordiamo Walter Tobagi. Ma neanche chi lo uccise

Cinque colpi di pistola, sparati da un gruppo di ragazzi della buona borghesia milanese.

Non scordiamo Walter Tobagi. Ma neanche chi lo uccise

Cinque colpi di pistola, sparati da un gruppo di ragazzi della buona borghesia milanese. Storia ordinaria di violenza rossa, roba di quarant'anni fa, un agguato contro un giornalista di una sinistra diversa, liberale, e il Corriere della Sera che rimane sullo sfondo. La Federazione della stampa e il Comune oggi gli hanno dedicato una panchina della memoria. Ma perché lui? Perché Walter Tobagi? Semplice. «Perché era un democratico - spiega Sergio Mattarella - un riformatore, e questo risultava insopportabile al fanatismo estremista». Insomma, «rappresentava ciò che i brigatisti volevano cancellare, un giornalismo libero e senza stereotipi».

Anni duri. Tobagi indagava in quel mondo, sosteneva che i terroristi «non sono samurai invincibili», però spesso trovavano sponde anche nei quotidiani. Racconta il suo amico fraterno Massimo Fini: «Walter ed io, con Franco Abruzzo, spezzammo il fronte socialcomunista che reggeva il sindacato. Per noi liberali e socialisti, quella con la destra di Autonomia fu un'alleanza dolorosa ma necessaria. Lui divento il presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti e da quel giorno, per una certa sinistra vicina al Pci, siamo diventati i nemici. Walter subì minacce per questo». Un clima che, secondo il Psi dell'epoca, unito al profilo professionale di Tobagi e al suo modo di scavare nell'eversione, ha favorito la sua morte. L'estremismo, l'editoria, i contrasti in redazione, il partito armato. Bettino Craxi ci vedeva un nesso stretto. Carlo Alberto dalla Chiesa, in un'intervista a Panorama, sostenne che «tra i sostenitori della Brigata XXVII c'erano dei giornalisti». Due dei membri del commando appartenevano in qualche modo all'ambiente. Marco Barbone, figlio di Donato, dirigente editoriale della Sansoni, gruppo Rcs. E Paolo Morandini, figlio di Morando, critico cinematografico del Giorno. Che dire poi della rivendicazione? Troppo precisa, troppo piena di particolari della vita professionale di Tobagi per non destare sospetti. Anche Ferruccio de Bortoli ha parlato di zona grigia. «Il terrorismo si nutri dell'ignavia di parte della cultura, del giornalismo che ne subirono il fascino perverso».

Anni terribili. Walter Tobagi oggi avrebbe 73 anni e, secondo molti, sarebbe stato il direttore perfetto per il Corriere.

Invece era il bersaglio perfetto, come tanti altri personaggi moderati, di frontiera: Giugni, Casalegno, Bachelet, Biagi. Resta, dice ancora il capo dello Stato, «il simbolo di un giornalismo che non si piega». E una panchina.

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