A Milano, nelle giornate dell'insurrezione, a fine aprile del 1945, venne costituita una polizia segreta del Partito comunista, che si occupò di condurre una cruenta purga di pura marca staliniana, contro i propri dissidenti interni.
Tra le vittime di questa squadra della morte, organizzata per ordine di Luigi Longo, leader politico-militare della Resistenza comunista e vice di Palmiro Togliatti, e affidata al comando operativo del duce rosso delle Brigate Garibaldi lombarde, Pietro Vergani, vi fu anche il capitano Neri, Luigi Canali, capo carismatico del movimento di Liberazione comasco, eliminato per la questione dell'oro di Dongo e per essersi opposto all'esecuzione sommaria di Mussolini. Ma, soprattutto, ammazzato per essere tornato a dirigere i suoi partigiani lariani, nelle storiche giornate di fine aprile, sfidando con la propria autorità morale il partito che lo considerava un traditore.
La verità sull'assassinio di Neri l'ho scoperta per caso, dopo quasi trent'anni di ricerche, scovando notizie su uno dei capi di questa polizia segreta, che venne formata nell'ombra, a sinistra imitazione dell'Nkvd sovietica. Cercavo informazioni sull'ungherese Stefano Moskovitz, uno dei cosacchi che fecero calare il terrore su Milano, agendo sotto la protezione degli alti vertici del Pci.
A fare saltare il coperchio di questa sconvolgente realtà, fu, per primo, Fulvio Bellini, figura di rilievo delle vicende resistenziali, il quale, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, fu uno spietato accusatore dei crimini commessi dal suo ex partito, il Pci. Saggista, autore, con Giorgio Galli, della prima storia del Partito comunista italiano, è scomparso nel 2013, a 90 anni. Grande investigatore dei misteri italiani, dalla morte di Enrico Mattei alla strage di Piazza Fontana, Bellini fu sul punto di determinare una svolta, nel processo di Padova del 1957, sull'oro di Dongo e crimini annessi. Insieme ad altri, denunciò infatti l'esistenza di un nucleo speciale, che, subito dopo il 25 aprile 1945, fece una strage tra i quadri del Pci che si opponevano alla linea dettata da Togliatti. Purtroppo, il processo, davanti alla Corte d'assise patavina, fu bruscamente interrotto, dopo il suicidio di un giudice popolare, e la giustizia non poté quindi compiere il suo corso.
Ma gli interrogatori di Bellini, e dei suoi amici, da parte degli organi di polizia giudiziaria, in quel 1957, fornirono la pista da seguire per giungere alla verità.
Bellini nel 1949 era stato espulso dal Pci per deviazionismo e, nel prendere le distanze dalla sua militanza, aveva invitato a seguire le tracce dei delitti disseminate dagli ex compagni. Nel processo verbale della sua deposizione, davanti ai carabinieri, si legge che, attorno, al 20 maggio 1945, gli era capitato di cogliere, nella sede clandestina della polizia segreta, un brano di conversazione tra due membri della squadra della morte: il già citato Stefano Moskovitz, nomi di battaglia Ivo e Pista, e il comandante partigiano Spartaco Cavallini.
Il braccio armato del partito aveva occupato, manu militari, un'ex Casa del Fascio, già sede di un gruppo rionale di camicie nere (il Tonoli), al numero 31 di via Andrea del Sarto, zona Città Studi. L'edificio, già l'indomani dell'insurrezione, fu utilizzato come un vero e proprio corridoio della morte. Dalla viva voce di Ivo e di Spartaco Cavallini, Bellini poté apprendere che Neri non soltanto era passato da via Andrea del Sarto, ma che, dopo alcune ore di detenzione, era stato ucciso, alle prime ore dell'8 maggio, e il suo cadavere gettato forse nel Naviglio, o forse no. In ogni caso, il corpo non fu mai ritrovato. Moskovitz e Cavallini, quasi a volersi reciprocamente tranquillizzare, accennarono allo stato irriconoscibile del volto di Canali, sfigurato dai colpi d'arma da fuoco. Una modalità di esecuzione che rendeva arduo risalire ai responsabili di tanta efferatezza. Bellini indicò in sei o sette il numero dei componenti della polizia segreta, e, ai nomi dei due precedenti, aggiunse quelli di Dionisio Gambaruto, il comandante Nicola, esecutore glaciale degli ordini del partito, e di Franco Talice, un partigiano originario di Modena, che però non poteva più essere incriminato, perché deceduto nel 1956. Che Bellini non raccontasse fandonie è certo. Al Palazzo di Giustizia di Milano, dopo la Liberazione, i comunisti avevano dato corpo all'organo di epurazione sanguinosa dei «nemici del popolo», e insediarono la loro Lubjanka nell'ex edificio del gruppo rionale fascista Tonoli.
Con singolare procedura, del tutto atipica nella storia della Resistenza, gli alti vertici del Pci, il 28 aprile 45, crearono una Brigata garibaldina fantasma, la 140ª Sap (Squadre di azione patriottica), di cui non si trova traccia, negli annali della guerra di Liberazione. Gli uomini della 140ª, investiti della funzione apparente di organi di polizia giudiziaria del Cln, in realtà rispondevano solo agli ordini di Vergani e di Longo.
Nell'ex Casa del Fascio di via Andrea del Sarto, divenuta poi Casa del Popolo e sede della sezione Venezia del Pci, si insediò il nucleo clandestino degli esecutori del tribunale della morte, che assunse un nome in codice, MC/7, come accade per ogni polizia segreta o servizio operativo speciale.
Le purghe, a Milano, colpirono, a partire dal 6 maggio, i quadri che avevano deviato dalla retta via del dogmatismo di partito. Quel giorno, i giustizieri rossi, prelevarono dalla sua abitazione, e poi eliminarono, il segretario comunale di Settimo Milanese, il comunista Carlo Dossi detto Peppin. L'indomani, fu la volta del compagno Nicola Arpani, dirigente della 1ª Divisione garibaldina, di stanza a Milano. In un'escalation di micidiale violenza chirurgica, in pochi giorni, caddero Tellio Paganelli, Ernesto Garbagnati, della 113ª Brigata Garibaldi, Ernesto Cammi, Libero Besaglia, Albaro Dubois, e Angelo Mariani, della 185ª Brigata.
Chi erano gli oscuri professsionisti del colpo alla nuca? Ivo Moskovitz, di professione medico, nato a Budapest nel 1917, entrò in contatto con il Pci nel 1943. Nei giorni truci della caccia ai fascisti, ma anche dei nemici del popolo che si annidavano ovunque, pure dentro i partiti democratici, questi agiva con l'autorità di presidente della seconda sezione di giustizia del Cln e di commissario capo della polizia investigativa politica presso il Palazzo di Giustizia. In pratica, era il comandante della polizia giudiziaria comunista di Milano, e, grazie a quell'investitura ufficiale, imperversava con piena licenza di uccidere.
I suoi scherani lo ossequiavano, quale «commissario politico della 140ª Brigata Garibaldi Sap», comandata da Carlo Barin, un personaggio che pare sparito nel porto delle nebbie, tanto che su di lui non sono riuscito a trovare nulla.
Come abbiamo visto, la 140ª Brigata non esisteva che come articolazione postuma della Resistenza, in quanto creata nei giorni della Liberazione.
Le esecuzioni del nucleo MC/7 allarmarono gli Alleati, giunti a liberare Milano il 29 aprile di quel 45. I capitani britannici Fleethwood e Kaen, nel tentativo di porre un argine all'omicidio, il successivo 28 maggio fecero scattare le manette ai polsi di Moskovitz. Le modalità dell'arresto la dicono lunga sulla pericolosità dell'individuo: i due ufficiali inglesi lo sorpresero, nel suo ufficio al Palazzo di giustizia, abbattendone la porta. Gli angloamericani non potevano tollerare ciò cui stavano assistendo: la trasformazione, cioè, della capitale del Nord Italia da loro liberato, in un avamposto della sovietizzazione del Paese. A Milano, da Palazzo di giustizia, veniva guidato il braccio armato del Partito comunista, reso intoccabile, appunto, dalla funzione ufficiale di organo del Cln. Quella polizia segreta che, come l'Nkvd di Mosca, poteva arrestare, detenere, torturare, uccidere chiunque, senza alcuno straccio di garanzie legali e procedurali. Tuttavia, gli Alleati si scoprirono impotenti, in quanto il Pci riuscì a manovrare le proprie pedine a Palazzo di giustizia. In tal modo, il 28 giugno 1945, dovettero accettare che il comandante Ivo, dopo soli 30 giorni di detenzione nella caserma dei carabinieri di via Moscova, venisse rilasciato.
Documenti agghiaccianti sul sicario eccellente ungherese, e sui vani tentativi dei britannici di frenare i sanguinosi eccessi dei nuovi padroni rossi dell'Italia postfascista, li ho ritrovati in un Fondo documentario custodito negli archivi della Fondazione Isec (Istituto per la storia dell'età contemporanea) di Sesto San Giovanni, santuario culturale della vecchia Stalingrado nazionale. Nel 1947, o nel 48, mentre a Milano imperversava la Volante Rossa, altra squadra antesignana delle Brigate Rosse, Moskovitz venne rispedito dal Pci Oltrecortina, nell'Ungheria donde proveniva. Secondo il giornalista missino Giorgio Pisanò, autore di molte inchieste su quel periodo storico macchiato di sangue, Ivo rientrò poi in Italia, dove morì nel 1962.
Quanto a Spartaco Cavallini, gappista di Sesto San Giovanni (nome di battaglia, Spa), tecnico della Breda, era nato a Vigarano Mainarda, in provincia di Ferrara, il 15 ottobre 1912. Nel '27, emigrò a Milano. Si iscrisse al Pci nel 1942. Interrogato a sua volta dagli organi di polizia giudiziaria, in quell'infuocato 1957, tentò di costruirsi una verginità resistenziale, dichiarando di aver svolto il ruolo di commissario politico nella 51ª Brigata Capettini, che operava nell'Oltrepò pavese.
In realtà, mentiva. Perché era stato un quadro che il Pci aveva iniettato, come un'arma di distruzione batteriologica, dentro una Brigata Garibaldi del Lecchese, la 55ª Rosselli, di cui divenne comandante. A capo del distaccamento Carlo Marx della sua formazione, in Alta Valsassina, Cavallini si era dedicato, con altri, ad azioni scellerate che avevano suscitato allarme, tra gli organizzatori più lucidi e raziocinanti del movimento partigiano comunista, come lo stesso Neri.
Nel dopoguerra, dopo l'incarico nel gruppo clandestino MC/7, Spartaco fu membro della Commissione interna e del Comitato di gestione della Breda, segretario della Camera del Lavoro di Sesto San Giovanni, e componente del Comitato federale eletto al sesto Congresso provinciale del Pci, tenutosi a Milano nel novembre del 1947. Ma, già l'anno successivo, fu radiato dal suo partito. Morì, ad Abbadia Lariana, sul lago di Como, il 21 febbraio 1970.
Mario Tonghini, Stefano, tra i rari protagonisti superstiti della guerra partigiana nella zona del Lario, tratteggia Cavallini come una delle figure inquietanti che il Pci usò come fattore di deviazione, inquinamento e intossicazione ideologica dell'ambiente resistenziale. Tonghini, che oggi ha 94 anni e vive ad Alzate Brianza, in provincia di Como, si fece le ossa nella formazione autonoma dei Cacciatori delle Grigne, sulle montagne lecchesi, per terminare la sua battaglia come comandante di Brigata. Anticomunista di ferro, Stefano ricorda Spa come uno di coloro che «parlavano il linguaggio imperativo della violenza, della prevaricazione, e la patrocinavano».
Altro nemico giurato di Luigi Canali fu il terzo componente del nucleo speciale MC/7 Nicola Gambaruto, uno degli uomini che più operarono, fin dal 1944, su direttive del Partito comunista, per creare le condizione di isolamento politico del capitano, dentro i quadri resistenziali, che prepararono la sua eliminazione violenta. Nato a Vigliano d'Asti, l'8 ottobre 1921, Gambaruto fu responsabile di una condotta sconsiderata, nella battaglia resistenziale.
Il Pci fabbricò un castello di false accuse, per colpire Neri, emettendo contro di lui, e contro la sua compagna partigiana Gianna (Giuseppina Tuissi), una doppia sentenza di morte in contumacia, il 25 febbraio 1945, dopo l'evasione dell'esponente della Resistenza dal carcere fascista. Nicola, nell'organigramma delle Brigate Garibaldi, ereditò l'incarico di Canali, quale vicecomandante di Raggruppamento divisionale, mentre questi veniva esautorato e retrocesso al rango di comandante di divisione. Una purga disciplinare, che, unita alla pregressa condanna a morte emessa durante la lotta clandestina, precostituì la giustificazione per la successiva eliminazione violenta di Neri, da tempo dead man walking.
Sequestrato, a Como, la mattina del 7 maggio, dai suoi carnefici, Canali venne portato a Milano, alla sede del Comando regionale garibaldino lombardo, in via Ampère, per chiarire la sua posizione. Da lì, fu scortato nella vicina ex Casa del Fascio di via Andrea del Sarto.
La mia convinzione è che Fulvio Bellini sapesse, sulla fine di Neri, ben più di quanto ebbe a dire. Già membro dello stato maggiore della 110ª Brigata Garibaldi, che operava a Milano, dopo la Liberazione fu alle dipendenze dell'Ufficio quadri della Federazione provinciale del Pci. Per le funzioni politiche che svolgeva, fu a stretto contatto con gli esponenti della direzione del Partito comunista per l'Alta Italia: Longo, Emilio Sereni, Giancarlo Pajetta, Pietro Secchia, Arturo Colombi e altri.
Probabilmente, poté anche vedere, di sfuggita, Neri, durante le ore in cui fu detenuto in via Andrea del Sarto, e ciò fu alla base della sua testimonianza resa davanti alla polizia giudiziaria nel '57. Nessuno degli uomini che si macchiarono con il sangue di Canali, pagò i propri conti con la giustizia. I soli a finire incriminati, per concorso nell'assassinio di Neri, furono Gambaruto e Vergani. Il Pci fece eleggere Vergani in Parlamento, per procuragli lo scudo dell'immunità. Non fu, del resto, il solo ad essere elevato all'immeritata dignità di rappresentante del popolo. Anche Dante Gorreri, rinviato a giudizio quale mandante dell'omicidio di Gianna, venne scarcerato dopo la sua elezione a deputato, nel 1953.
La Tuissi, infatti, seguì la sorte del proprio uomo. Sicari prezzolati del Partito comunista, la scaraventarono già dalla scogliera del Pizzo di Cernobbio, la sera del 23 giugno 1945: era il giorno del suo ventiduesimo compleanno.
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