Onestamente, è quasi incredibile. «Non potete condannarci al silenzio» dicono in sostanza gli ex brigatisti dopo che qualcuno si è permesso di criticare le esternazioni assolutorie dell'ex capo brigatista Giovanni Senzani nel film Sangue di Pippo Delbono (dicesi qualcuno, visto che la stragrande maggioranza degli opinion leader si è guardata bene dal commentare). Tanto che «montava» la piccola grande polemica, il film del regista ligure (finanziato dalla televisione svizzera e comunque sponsorizzato dalla Rai) è stato l'unico lungometraggio italiano premiato al Festival di Locarno con un riconoscimento che da solo grida vendetta: il premio Don Chisciotte, ispirato al protagonista dell'epopea romantica e mai sanguinaria immaginata da Cervantes. Quindi, come prevedibile, un film che avrà una minima distribuzione nelle sale ha creato una grande eco. Nella coscienza di quella che un tempo era considerata «la maggioranza silenziosa» e in quella che ha ancora voglia di farsi sentire.
Sul sito de il Caffè, pubblicazione della Svizzera italiana, Renato Curcio, che fu tra i fondatori delle Brigate Rosse nonché uno di quegli «ideologi» che dalla Facolta di Sociologia di Trento sparsero motivazioni terroristiche tra i disillusi di inizio anni Settanta, ammette che «sempre più raramente» si trova davanti alla contestazione. Ha tenuto conferenze persino nelle Università e tuttora è direttore editoriale della casa editrice Sensibili alle foglie. «Sono convinto che per parlare si debba essere persuasi di quello che si dice e sapere quello di cui si parla. Altrimenti si possono creare pasticci, equivoci e quant'altro». Difatti. Presentando il film Sangue, del quale è protagonista, uno dei suoi successori ai vertici delle Br, Giovanni Senzani, ha detto che il loro terrorismo «non ha lasciato traccia», come se le decine di morti e le centinaia di familiari, per non aggiungere altri, non avessero avuto il proprio destino segnato per sempre dalle azioni di quelli che l'allora Pci definì «compagni che sbagliano».
Secondo il brigatista Tonino Loris Parioli, che era della colonna torinese Mara Cagol (la compagna di Curcio uccisa vicino ad Acqui Terme nel 1975), non è giusto che oggi «dopo quarant'anni ci sia ancora gente che ha questo nodo alla gola e vorrebbe condannarmi al silenzio. Quando me lo chiedono, racconto la mia esperienza, ciò che ho vissuto (...). Quando parlo non commetto reati, non faccio apologia». Parioli, pur non avendo commesso alcun reato di sangue, ha fatto sedici anni di carcere mentre Senzani, killer di Peci, diciassette. Però fa riflettere che oggi lui dica: «Non accetto la dittatura dei mass media perché si vogliono cancellare le nostre voci, come se fossero indecenti». Per intenderci, fino al 1988 le Brigate Rosse di cui Parioli faceva parte hanno rivendicato ben 86 omicidi. Ottantasei.
Pure Paolo Cassetta, che era nella colonna romana della Brigate Rosse e oggi lavora in una cooperativa, accenna a un tentativo di «far tacere noi, gli altri». Ma poi aggiunge: «Son sorpreso che siano solo gli ex brigatisti, a battersi contro il silenzio». Silenzio? Da non crederci: nel film Sangue di Delbono sono stati ripresi persino i funerali di Prospero Gallinari, carceriere di Moro e killer della sua scorta. E dagli anni Settanta qualsiasi sussurro di ex brigatisti viene amplificato a dismisura. Paolo Persichetti che, dopo aver fatto parte della colonna romana, insegnò sociologia politica all'ateneo St. Dennis Vincennes a Parigi e ora è giornalista, mette a fuoco il problema: «Non c'è solo il diritto alla parola, inutile negare che esista anche un rischio esibizionismo».
Inutile negare, anche, che questo diritto sconfini spesso nell'offesa al dolore di chi, dopo tanti anni, prova ancora a rimarginare ferite enormi, alle quali nessuno ha dato finora uno straccio di premio, tantomeno il Don Chisciotte..- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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