Alessandro Campi, uno storico delle dottrine politiche che ha al suo attivo una nutrita serie di saggi e di ricerche sul «realismo politico», ha contribuito come pochi altri studiosi a tener viva nel nostro Paese la memoria e la lezione di Raymond Aron, il pensatore politico considerato da molti cultori di relazioni internazionali «il Tucidide del XX secolo». Tra il 1995 e il 2013 Campi ha scritto almeno sei importanti saggi su Aron, in occasione di pubblicazioni di opere tradotte per la prima volta in italiano - o riproposte opportunamente per non farle cadere nell'oblio - e da lui curate, prima da solo poi in collaborazione con Giulio De Ligio, valentissimo ricercatore che ora lavora in Francia nel milieu intellettuale del filosofo aroniano Pierre Manent. L'idea di raccogliere gli scritti più significativi sull'autore dell'Oppio degli intellettuali nel volume La politica come passione e come scienza. Saggi su Raymond Aron (Rubbettino, pagg. 200, euro 14) è stata felice giacché, pur non pretendendo di essere esauriente, il libro può essere utilissimo al lettore che voglia avvicinarsi all'opera del grande prince de l'esprit morto nel 1983. Campi mette a confronto Aron non solo con i grandi realisti del suo tempo - da Carl Schmitt a Hans Morgenthau, da Julien Freund a Gianfranco Miglio - ma anche con i liberali, i conservatori, i liberaldemocratici come Friedrich von Hayek, Russell Kirk, Norberto Bobbio. I capitoli, scritti in uno stile limpido e sobrio, affrontano questioni cruciali della politica del nostro tempo - la guerra, la tradizione del realismo politico, la moralità del realismo, il conservatorismo e la destra, il Sessantotto francese, la questione nazionale, il problema politico dell'Europa - con una competenza e un equilibrio interpretativo che raramente s'incontrano nei colleghi di Campi (spesso residuati bellici della «contestazione»).«Discepolo liberale di Machiavelli», Aron viene subito sottratto al mainstream del liberalismo contemporaneo, libertario e antistatalista. «Nel pensiero di Aron non si troveranno mai le invettive contro lo Stato e il potere tipiche di un certo liberalismo di matrice anarchica; mentre sarà facile rinvenire una grande attenzione ai complessi rapporti tra forze - sociali, politiche ed economiche - sui quali si regge qualunque collettività e che è appunto compito della politica cercare di governare, per evitare che tali rapporto divengano conflittuali e dunque potenzialmente distruttivi». Del pari, il pensiero di Aron viene, sì, ascritto al «realismo politico» ma con l'avvertenza che il realismo aroniano, estraneo a una filosofia della violenza, fondata su un'antropologia pessimistica, si converte in una metodologia «che partendo dall'evidenza dei fatti non si arrende ad essi e non trascura i fini (anche morali) che ogni azione o attività politica tende a perseguire». I punti salienti di tale machiavellismo moderato sono la «connessione politica-antropologia, l'idea che lo studio e la comprensione della politica non possano fare a meno di una determinata visione dell'uomo e dell'esistenza umana»; «l'autonomia (e il relativo primato) della politica rispetto alle altre sfere di attività umana»; «la critica all'ideologia e la polemica nei confronti dell'utopismo politico»; la ineliminabilità del potere e della classe politica; «la natura intrinsecamente polemica e conflittuale della politica»; il senso drammatico della decisione politica e «il rigetto del formalismo» (non sono le costituzioni che fanno capire la natura di un sistema politico).L'analisi delle varie tematiche è sempre convincente e sostenuta da una lettura fedele e attenta dei testi. Qualche perplessità, nondimeno, suscita la postfazione del 2006 al saggio sulla destra, qui riproposta. «Nel mentre fa appello alla tradizione (che per lui coincide essenzialmente con la tradizione della libertà sacralizzata dalle istituzioni rappresentative della democrazia), Aron condanna il tradizionalismo dei vecchi conservatori, inteso come culto sentimentale di un passato cristallizzato dal ricordo e trasformato in credo ideologico». Quanto scrive Campi, beninteso, è esatto - soprattutto in relazione al diverso senso della tradizione riscontrabile in Russell Kirk - e tuttavia può far dimenticare che nella tradizione c'è anche qualcosa che non si riduce alla conservazione della democrazia liberale. Della tradizione, infatti, fa parte «la lealtà alla nazione, alla propria nazione, quella nella quale si è nati e nella quale ci si è formati dal punto di vista delle credenze, dei valori e delle conoscenze, alla quale si è scelto di concedere la propria adesione consapevole, che si considera come la propria comunità politica di appartenenza». Se si trattasse solo di «sacralizzare le istituzioni rappresentative della democrazia», Aron potrebbe sembrare quasi un precursore del patriottismo costituzionale laddove era e rimase fino alla fine un francese orgoglioso di esserlo, pur se lontanissimo da ogni tentazione nazionalistica.In fondo è la pietas filiale nei confronti della nazione - quella che portò lui resistente e gollista a Londra a non calcare la mano su Vichy - a differenziare Aron da Norberto Bobbio, «anch'egli un liberale intriso di realismo storico e di un certo pessimismo esistenziale» ma deciso, come ricorda Campi, a non concedere mai «nulla - se non un sentimento di condanna e di riprovazione - alla destra in tutte le sue possibili espressioni». Aron avrebbe potuto dire della destra radicale ciò che De Gaulle disse dei comunisti: anch'essi sono la Francia.
Diversamente da Bobbio, riteneva la destra radicale incompatibile con la cultura della società industriale ma ne comprendeva i valori profondi e li comprendeva perché aveva il senso della nazione, della sua storia, dei suoi drammi, quasi a riprova che il liberalismo - che, per definizione, comporta il rispetto degli avversari - può allignare, forse, solo sul terreno di una grande comunità di destino.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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