Rembrandt, che si dipinse senza vanità e con ironia

Per i 350 anni dalla morte dell'artista, una serie di mostre in cui dominano i suoi celebri autoritratti

Rembrandt, che si dipinse senza vanità e con ironia

È entrando nella sua casa di Amsterdam che si capisce realmente qualcosa del suo enigmatico genio. Una casa, affacciata sul canale Zwanenburgwal (e costruita l'anno stesso della sua nascita, il 1606), particolarmente lussuosa per un artista di quel tempo. Rembrandt la comprò quando era all'apice del successo, nel 1639; casa che però fu pure la sua rovina e che non riuscì mai a pagare interamente: in un periodo in cui già dipingeva poco, le committenze erano diminuite massicciamente e le disgrazie familiari lo avevano distrutto nello spirito (erano morti la moglie e due figli), fu costretto a dichiarare fallimento. Era il 1656. Dalla redazione di un notaio è stato possibile conoscere gli oggetti che l'abitazione conteneva e che furono messi in vendita per coprire il debito.

Al secondo piano della Rembrandthuis, di fronte alla stanza che era lo studio in cui dipingeva lo studio più grande che artista d'Olanda avesse mai avuto e dentro il quale realizzò opere come La ronda di notte (1642) Rembrandt aveva allestito quella che chiamava la stanza dell'arte. Si trattava di una camera in cui il pittore raccoglieva le sue collezioni: conchiglie, farfalle, armature, grossi gusci di tartarughe, lance, busti di filosofi, imperatori e poeti dell'antichità, vetri, monete, porcellane. Interessi che diremmo eccentrici, fuori dal comune (e anche fuori dalle possibilità economiche di un qualunque artista). Eppure, proprio da quella stanza emerge il suo più vero autoritratto. Sappiamo che quegli oggetti erano per Rembrandt non solo fonte di interesse collezionistico, ma anche modelli da ritrarre, sui quali esercitare la propria pittura. Oggetti che avrebbero poi ornato le sue tele e i suoi soggetti. Di più, erano l'ornamento di cui si vestiva lo stesso artista, il quale così falsificava pure la sua condizione sociale, dipingendosi alle volte nelle vesti di un nobile, altre di un reale, altre ancora elevandosi al rango di mito o fingendosi un santo.

Ho visitato la Rembrandthuis dopo essere andato al Rijksmuseum, che raccoglie la maggiore collezione d'opere d'arte in Olanda, dove è stata allestita, per i 350 anni dalla morte del maestro (avvenuta nel 1669) una mostra importante. Il museo ha finalmente esposto in un percorso articolato per ambiti tematici Alle Rembrandts («Tutto Rembrandt»), fino al 10 giugno le opere di Rembrandt in suo possesso: dipinti a olio, disegni e incisioni. Non è la sola iniziativa che è stata organizzata per questo anniversario. Al Museo del Prado le opere di Rembrandt verranno affiancate a quelle di Velázquez dal 25 giugno al 29 settembre. Altre esposizioni ci saranno anche a L'Aia e nella città natale del pittore, Leida, la quale si concentrerà sugli anni giovanili. Eppure, nonostante la bella e complessa mostra al Rijksmuseum in cui ho trascorso diverse ore davanti a quei capolavori, è entrando nella sua casa (dove, fino al 19 maggio, si può vedere la Rembrandt's Social Network) che mi è sembrato davvero di capire.

Lo sappiamo, è con Rembrandt che l'autoritratto diventa realmente un genere pittorico. Non che prima non si praticasse. Ma l'artista non era così sfacciatamente narcisista da essere egli stesso il protagonista dell'opera. Tuttalpiù si ritraeva nascondendosi tra i personaggi di una scena, facendo sbucare, come all'improvviso, il proprio volto in mezzo a quello di altri (ma è chiaro che c'erano già stati degli esempi importanti: da Parmigianino, col suo celebre ritratto davanti a uno specchio convesso, a Rubens, che Rembrandt negli anni del suo apprendistato evidentemente emulava). Ma non si deve pensare a un atto di vanitas. In Rembrandt c'era tanta presunzione quanta autoironia (e si osservi, per fare giusto un paio di esempi, quel meraviglioso micro Autoritratto con berretto e occhi spalancati a puntasecca di 5x4,5 cm del 1630, esposto alla Alle Rembrandts; oppure, sempre nella stessa esposizione, l'Autoritratto come l'Apostolo Paolo, del 1661). Bisogna studiare i numerosissimi autoritratti che ha realizzato per rendersene conto (quasi volendo fermare tutti i presenti della propria esistenza un umano che, con un sentimento addirittura religioso, desidera divenire e affermare la sua soggettività; una questione che il filosofo e sociologo Georg Simmel ha analizzato in un libro scritto nel 1900, ora nel catalogo Abscondita: Rembrandt. Un saggio di filosofia dell'arte).

Di fatto, con Rembrandt scopriamo quanto l'io non coincida mai davvero con se stesso. Che la vita non è che un teatro. Quegli oggetti che raccoglie, e con i quali pure si veste per ritrarsi (piume, cappelli sfarzosi, collane d'oro, mantelli ecc.) non vanno letti come l'ornamento attraverso cui l'artista giganteggia se stesso; piuttosto bisogna pensarli come la maschera che indossiamo non per presentarci al mondo, ma per ridicolizzare la nostra serietà di esseri nel mondo. Dice bene Simon Schama, nella monumentale monografia che dedica al pittore, Gli occhi di Rembrandt (ristampata da Mondadori): «Nessun pittore ha mai guardato con tanta lucida intelligenza e inesauribile compassione al nostro entrare e uscire di scena e a tutta la sceneggiata che si svolge nel mezzo».

A ben vedere, Rembrandt, prima ancora che usare l'autoritratto come forma di studio, di esercizio utile a opere di diverso soggetto, ne ha fatto una filosofia. Forse si potrebbe anche dire qualcosa di più: che attraverso quelle maschere, attraverso l'ironia, Rembrandt rende sopportabile a se stesso, prima che ai suoi spettatori e acquirenti, la tragedia della vita (e si legga anche l'indagine di Todorov in Il caso Rembrandt, pubblicato da Garzanti, sulla relazione tra la vita del pittore e la sua arte). Ma con questo non si spiegherebbe il motivo per cui quella sua faccia tante volte ritratta, sulla quale spesso posa una patina d'ombra, appaia tutto il contrario di una illusione, tanto è viva, quasi si percepissero sempre, sotto l'incarnato, sotto le rughe profonde che con l'avanzare degli anni non risparmia di mostrarci, rosse righe di sangue (pennellate che, pur nella costruzione realistica, sono già i segni di un'astrazione), come vene esplose sotto la cute.

Allora, sembra che Rembrandt abbia voluto mostrare tutta la dicotomia tra essere e apparire. Tra quello che un volto mostra e quello che un abito, di quel volto, prova a nascondere (e il massimo esempio è quel capolavoro di Autoritratto con bastone del 1658 conservato alla Frick Collection di New York, in cui gli abiti regali violentano quel volto roso dal dolore). È in questa soglia, in questa voragine che l'io pare incendiarsi.

Rembrandt non ha stabilito che il volto fosse più vero della maschera che portiamo. Ha detto con la sua arte qualcosa di più vertiginoso: che non c'è io che non sia allo stesso tempo l'affermazione e la negazione di se stesso.

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