La storia è piena di fake news ma sono tutte da studiare

A volte pettegolezzi, o rumours montati ad arte, sono tracce importanti. La Seconda guerra mondiale lo dimostra

La storia è piena di fake news ma sono tutte da studiare

Quasi quotidianamente politici, filosofi, scienziati sociali, sacerdoti del «politicamente» corretto ci mettono in guardia dalle fake news, invitandoci a gettarle nel bidone della spazzatura dell'informazione come si farebbe per qualsiasi altro materiale tossico e inquinante per la nostra salute mentale. Da storico, io penso, invece, che se l'analista del passato è vocato anche lui a smascherare le fake (flatus vocis spontanee della pubblica opinione o notizie ingannevoli costruite ad arte per operazioni di propaganda e di contropropaganda), egli deve concentrarsi con estrema attenzione anche su questo materiale di risulta per accertarsi che dietro quel ciarpame non ci siano elementi di verità utili al suo lavoro.

In altri termini, ritengo che nulla debba essere scartato, a priori, nell'indagine storica. Come scrive Marc Bloch, nella prefazione al suo La società feudale, comparso nel 1940, «lo storico non è un uomo libero perché del passato sa solamente quel che esso vuole confidargli». E proprio per questo a lui non è consentito di trascurare anche il più insignificante ed equivoco indizio. Al pari di un detective, lo storico non può basare la sua ricostruzione degli eventi solo su una «prova regina», che raramente o forse mai gli è dato di ritrovare, ma il più delle volte deve operare su semplici voci, su dati marginali a volte genuini a volte contraffatti, su scarti di magazzino, appunto, che però, se attentamente decifrati, gli consentono di approssimarsi alla verità, se pure questo termine è davvero idoneo a definire il risultato della sua ricerca.

A dimostrazione di quanto detto, vorrei qui parlare di alcune bufale storiche che molto ci dicono, però, sull'ultima fase del Secondo conflitto mondiale dove accanto alla guerra guerreggiata si combatté anche una «guerra diplomatica» che, nei propositi dei suoi attori, avrebbe dovuto portare a cambiamenti di fronte e a ribaltamenti di alleanze che più che la forza delle armi potevano, se condotti a termine, portare alla vittoria finale.

Il primo caso, da prendere in esame, è la lettera di Vanni Teodorani inoltrata a Piero Buscaroli, il 16 luglio 1964, gentilmente messami a disposizione dalla figlia di Teodorani, Anna Tagliarini Teodorani, in cui il primo faceva una sconcertante rivelazione all'autore dell'appassionante volume, Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del Novecento (Mondadori). Teodorani scriveva, infatti, di essere al corrente «di alcuni importanti retroscena del cosiddetto incontro di Feltre del 19 giugno 1943 tra Hitler e Mussolini», aggiungendo che «a quel convegno aveva dato adesione il Commissario del Popolo agli Esteri, Molotov», per sondare la possibilità di una soluzione politica del conflitto, tale da neutralizzare il fronte orientale, portando Mosca a sganciarsi dall'alleanza con gli Alleati. Una notizia, questa, che Teodorani aveva anticipato nel suo diario degli anni 1945-1946, dove, pur senza fare nomi, scriveva dell'«auspicata presenza di un terzo personaggio» che avrebbe dovuto partecipare al bilaterale tra il Capo del governo italiano e il Führer svoltosi, in realtà, nelle sale di Villa Gaggia alla periferia di Belluno.

Qui è da notare, in primo luogo, la qualità dei corrispondenti. Se Buscaroli, musicologo prestato alla storia, si sforzò costantemente, a volte con penetrante intuito, di fare luce sulle trame della «diplomazia occulta» che precedettero la caduta di Mussolini, nella fatidica notte del 25 luglio, Teodarani, marito di Rosa Mussolini, figlia del fratello minore del Duce (l'amatissimo Arnaldo) doveva essere al corrente delle segrete cose del regime.

Nonostante, ciò, la notizia, fatta salva l'onestà intellettuale di Teodorani nel riportarla, è palesemente falsa, perché è veramente difficile ipotizzare che il Ministro degli Esteri sovietico avrebbe corso il rischio di passare personalmente le linee e di trasferirsi in territorio nemico per iniziare una trattativa, la cui apertura doveva, verosimilmente, essere affidata a membri del corpo diplomatico, influenti ma di minor rilevanza pubblica, o meglio ancora ad agenti qualificati dell'intelligence russa.

Più tardi, tuttavia, lo scenario congetturato da Teodorani sembrò effettivamente sul punto di avverarsi. Alla fine dell'agosto 1943, i governi delle Nazioni belligeranti e neutrali furono scossi dalla notizia di un prossimo summit tra Molotov e Ribbentrop per trattare le condizioni di un armistizio (della cui eventualità lo stesso ministro degli Esteri del Reich accennò, poi, nelle sue memorie, collocando però la data della sua missione al gennaio 1945). Il 30 agosto, il nostro ambasciatore a Berlino, Rogeri di Villanova, scriveva che quella notizia poteva dirsi verosimile perché in Germania aveva prevalso un «partito della pace», maggioritari «in non pochi ambienti responsabili dello Stato Maggiore della Wehrmacht, dell'industria e della burocrazia», persuasi che il Reich, una volta snervato l'esercito sovietico, «grazie a una guerra imposta su criteri esclusivamente difensivi», dovesse iniziare con i Russi formali negoziati per interrompere le ostilità.

Il giorno seguente, il nuovo ministro degli Esteri, Raffaele Guariglia, succeduto a Ciano, reputava che tale convinzione potesse addirittura aver fatto breccia nel «cerchio magico» di Hitler (Göring, Bormann, Goebbels) e scriveva al nostro rappresentante nella capitale tedesca di controllare le voci ricorrenti e presumibilmente fondate di un'improvvisa partenza di Ribbentrop per Mosca, per rinnovare il Patto Hitler-Stalin del 23 agosto 1939. Il 2 settembre, dopo un abboccamento con il collega nipponico, di cui resta traccia nelle intercettazioni del servizio informazioni statunitense, Rogeri di Villanova, liquidava la missione di Ribbentrop in Unione Sovietica come una mera invenzione, scrivendo che «l'ambasciatore giapponese, particolarmente interessato a uno sviluppo del genere, mi ha dichiarato nel modo più categorico non esistere alcuna premessa, né politica né militare, che possa far credere a una prossima soluzione politica del conflitto tedesco-sovietico».

Sia l'indiscrezione di Teodorani che quella di Rogeri di Villanova si riducevano, dunque, a due bolle di sapone prive di consistenza. Eppure queste «bufale» contenevano un largo margine di verità. Come ho dimostrato nel volume scritto a quattro mani con Emilio Gin, Le Potenze dell'Asse e l'Unione Sovietica, 1939-1945 (Rubbettino Editore) e in altri interventi, già tra la fine dell'inverno e la tarda estate del 1943, a Stoccolma, si erano sviluppati negoziati tra emissari tedeschi e sovietici per arrivare al cessate il fuoco sul fronte dell'est, che ebbero come protagonista un parterre politico di altissimo livello. La delegazione russa contava, infatti, tra le sue file, l'ambasciatrice sovietica nella capitale scandinava, Alexandra Mikhailovna Kollontai, il già incaricato d'affari a Berlino e ora capo della Divisione Affari Esteri per l'Europa Centrale, Andrej Alexandrov, e Wladimir Semjonov che agiva in diretto contatto con il potente Commissario del Popolo per gli Affari Interni, Lavrentij Berija, notoriamente propenso alla pace con il Reich. Mentre quella germanica era guidata da un fedelissimo fiduciario di Ribbentrop, l'alto dirigente del ministero degli Esteri, Paul Otto Gustav Schmidt.

Del resto la possibilità di un riavvicinamento tra il colosso comunista e il Moloch nazista aveva raccolto largo credito tra vari esponenti d'eccellenza del mondo politico italiano, immediatamente prima del 25 luglio. In essa aveva confidato Vittorio Emanuele III, secondo il diario del suo aiutante di campo, Paolo Puntoni, vedendo nell'accostamento nazi-bolscevico la sola possibilità di evitare la catastrofe militare, cui l'Italia sembrava ineluttabilmente destinata, e la ragione per mantenere in sella Mussolini. A essa si era affidato, l'ancora molto influente Presidente della Confindustria, Giovanni Volpi di Misurata, quando in una conversazione privata aveva sostenuto «che essendo Hitler e Stalin uomini di buon senso, una pace tra i loro Paesi non poteva tardare». E di essa avrebbe parlato, ancora, il 21 marzo 1944, il Sottosegretario generale agli Esteri, Renato Prunas, confidando al nuovo Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, che se la Russia temeva di essere circondata, dopo la fine del conflitto da una cintura sanitaria di Paesi anticomunisti a lei ostili, Regno Unito e Stati Uniti paventavano, invece, l'eventualità non peregrina di una pace separata tra Berlino e Mosca che avrebbe capovolto l'esito della guerra in corso.

Quanto detto, mi pare, dimostra a sufficienza che tra verità e falsificazione il discrimine è davvero stretto, quando si tratta di ricostruire gli eventi del passato.

E allo storico, allora, tocca far sua la regola aurea enunciata da Sherlock Holmes nel romanzo di Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro: «Una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità».

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