da Spoleto
Quando la vide nuda in uno spettacolo di Luchino Visconti, Luis Buñuel trasecolò. E la volle senza veli per il suo Il fantasma della libertà. «Ma io, che mi sentivo brutta, pretesi una verifica. Ricevetti il maestro con indosso solo un magnifico trench di Valentino, foderato di pelliccia. Lo aprii davanti a lui, Et voilà!, esclamai. Ebbi la parte seduta stante». Imprevedibile e irresistibile: così è (ancora oggi) Adriana Asti. Fatale che la sua prestigiosa carriera, ricca di incontri illustri e titoli memorabili, diventasse essa stessa uno spettacolo. Memorie di Adriana, da sabato al Festival di Spoleto, per la regia di Andrée Ruth Shammah.
Signora Asti: perché ha sentito il desiderio di raccontare la sua vita?
«Posso dire la verità? Mai avuto un desiderio simile. Io ricordo con gioia il mio passato, ma sono soprattutto un'ammiratrice del futuro. E' stata Andrée, che leggendo il mio libro di memorie Ricordare e dimenticare, ha esclamato: Ma questo è già uno spettacolo bell'e fatto!. Beh: allora facciamolo, ho risposto io».
Ma ne avrete di cose, da raccontare. Buñuel, De Sica, Strehler, Ronconi, Pasolini, Bertolucci, sessanta film, un centinaio di spettacoli, due romanzi
«Partiremo dal solo spettacolo che il pubblico non sa: quello davanti al mio camerino. Io mi rifiuto di uscire per paura del pubblico, e il mio alter ego (cioè sempre io) cerca di convincermi rievocando la mia storia».
Che parte da dove? Come decise di fare l'attrice?
«Ah, ma io non l'ho deciso. Volevo solo andarmene di casa. Ma si vede che il sacro fuoco, anche se non ce l'hai, ti brucia lo stesso. Pian piano capii la meraviglia del teatro: l'impossibile che diventa possibile. Ora è per me come il deserto per i beduini, o il mare per i marinai. Il mio elemento vitale».
Furono più le speranze o le difficoltà?
«Entrambe, grazie. Il fatto è che ero un'attrice anomala. Senza un marito produttore, senza il 90-60-90 stile maggiorata... Cominciai come doppiatrice: Visconti, che era un amico, mi passava tutte le sue primedonne con difficoltà di eloquio: la Cardinale, la Romy Schneider, poverina, che una volta doppiai sia in milanese che in tedesco. Finchè Basta! tuonò Luchino -. Sei troppo brava, la tua voce devi usarla solo per te stessa!».
E arrivò il successo...
«Piano, piano. Nell'Elisabetta di Bruckner avevo solo una battuta, Quella francese, maestà. E m'impappinavo pure: Quella marcese, faestà. Nella Lulù di Bertolazzi dicevo solo Digo ben e digo mal; ma almeno pigliavo l'applauso. Finché arrivò Strehler col mitico Arlecchino. Una leggenda. Un sogno».
Ce la fa a riassumere in un aggettivo ciascuno tutti i grandi con cui ha lavorato?
«Visconti sublime. Strehler geniale. De Sica il sentimento. Ronconi la fantasia. Bertolucci e Pasolini la poesia. Ma poi ci sarebbero Susan Sontag, Alfredo Arias, la Ginzburg, Siciliano, Patroni Griffi, Musatti... Troppi».
E lo scandalo che suscitò in Harold Pinter, massimo drammaturgo inglese contemporaneo?
«Mica lo scandalizzai io: fu Luchino, che nel suo Old Times mi mise nature, con Valentina Cortese che m'incipriava tutta. Pinter fece chiudere lo spettacolo. Anni dopo, quando gli chiesi di dirigermi nel suo Ceneri alle ceneri, mi confessò: la regia gli aveva fatto orrore. L'unica cosa che gli era piaciuta ero io».
Con questa domanda la farò arrabbiare: il teatro è ancora quello di allora?
«Non mi arrabbio: mi rattristo. Una volta c'erano i capolavori, c'erano le primedonne. Oggi quattro fiction e due galline. Fiction: questa parola mi da i brividi! In Francia rispettano la cultura, pure troppo: da loro anche l'ultimo degli imbecilli conta. Ma da noi... Provi a fare il nome di Visconti: lo scambiano per quello di una boutique. E De Sica? Pensano sia la marca di un ragù».
Ha ancora voglia di fare progetti?
«Non faccio mai progetti. E, fra uno spettacolo e l'altro, imparo la sublime arte dell'ozio».
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