"Ti mangio il cuore", Elodie in un mafia-western col culto dell’immagine

Elodie incarna una maliarda dal fascino ferino attorno alla quale si scatena una guerra tra clan, ma l’intento del film di regalare soddisfazione estetica, per quanto vada a segno, è fin troppo urlato.

"Ti mangio il cuore", Elodie in un mafia-western col culto dell’immagine

Ti mangio il cuore del regista Pippo Mezzapesa, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, è un’opera di cui si è molto parlato sui Media perché segna l’esordio alla recitazione della cantante e performer Elodie.

La popstar nostrana è qui protagonista in un ruolo ispirato alla prima pentita di mafia e il film, tratto dall'omonimo libro inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, è ambientato sul promontorio del Gargano.

Partendo dal canovaccio eterno di una storia d’amore contrastata alla “Romeo e Giulietta”, si racconta l’escalation di una violenza fratricida tra due famiglie, i Malatesta e i Camporeale. In guerra da sempre per il controllo del territorio, i due clan hanno raggiunto una sorta di tregua armata ma l’antica faida si riaccende quando viene scoperta la frequentazione proibita tra due giovani: Andrea Malatesta, erede della casata mafiosa dei Malatesta, e Marilena, moglie del boss dei Camporeale.

Girato in bianco e nero in una Puglia atavica e rurale, “Ti mangio il cuore” racconta il richiamo del sangue in accezioni diverse, ci sono quello carnale ed erotico, quello relativo all’istinto di uccidere, infine quello, in alcuni contesti sacro, del vincolo parentale.

Siamo in una landa desolata che sembra uscita da un film western, una terra fangosa in cui il sangue scorre a fiumi e non esistono vie di mezzo: vige la legge del più forte. Al bando quindi colori e sfumature, tutto si gioca sul contrasto (a cominciare da quello cromatico) e sullo scontro diretto, anche se sullo sfondo gli animali continuano placidi a ruminare e i bambini a scorrazzare sull’aia.

L'asprezza della fotografia, il pathos delle musiche, l’eleganza formale della regia e la viscerale brutalità della storia. Sono questi gli ingredienti che fanno di “Ti mangio il cuore” un titolo a suo modo interessante. Malgrado il genere incentrato sulle lotte di mafia sia da tempo saturo, Pippo Mezzapesa ha saputo conferire al suo lavoro una precisa identità. Grazie a una confezione accattivante che rende in parte nuovi quelli che altrimenti sarebbero contenuti convenzionali e all’accento su figure femminili forti e ammalianti, questo miscuglio di tragedia greca e di mafia in salsa western appassiona.

Il racconto mantiene sempre un tono grave, le esecuzioni crudeli e sanguinose del resto non si contano, per non parlare di come sia inscindibile il binomio amore-morte. Il coraggio della vendetta è ciò a cui è chiamato il protagonista maschile, dapprima innocente ma pur sempre cresciuto nel culto del “sangue lava sangue”. Tra queste distese aride proprio come l’interiorità di chi le abita e percorre, c’è un preciso codice d’onore e non ci si accontenta di togliere la vita al nemico, c’è bisogno di ritualizzarne la dipartita: dopo l’oltraggio di renderne irriconoscibile la faccia, se ne lecca il sangue e magari se ne dà il cadavere in pasto ai porci. Essere capace di azioni indicibili e compiere una mattanza è espressione suprema di mascolinità nel piccolo mondo di “Ti mangio il cuore”, anche se a ben vedere il potere di vita o di morte è in mano alle donne, qui consapevoli, feroci e artiste della manipolazione.

Elodie appare in tutta la sua magnificente essenza fatta di sensualità indomita, sguardo magnetico e presenza carismatica. La sua innata intensità viene declinata in forme diverse ma, che si tratti dell’altezzosa e fiera moglie del boss prima o della reietta gravida dopo, la passionalità ferina di questa creatura si mangia lo schermo. Naturalmente la parte le è congeniale, quindi prima di parlare di talento attoriale sarà bene aspettare.

La dimensione visiva è il punto forte dell’opera. Ogni inquadratura è suggestiva, capace di trasudare al contempo dolore e bellezza. L’effetto è di un realismo paradossalmente patinato: ogni ruga o cicatrice è enfatizzata al punto giusto, l’amplesso tra amanti è una scultura che si staglia su uno sfondo, le saline, la cui bellezza non sembra di questo mondo e così via. Specie nelle scene in cui Elodie spicca tra le altre donne, durante la processione religiosa, sembra di trovarsi in uno spot di Dolce e Gabbana, il che non giova alla credibilità del film e fa capire come il confine tra fascinazione estetica e artificiosità sia labile. Lo stesso patriarca dei Malatesta sembra in alcuni momenti un vecchio rocker, per dire quanto siamo di fronte a una ruvidezza studiatissima.

In questa violenza arcaica e bestiale, la civiltà compare nei riferimenti religiosi che qui rimangono una bussola anche per il più incallito dei criminali. La Madonna, ossia il Femminile divino, ha la veste sporca di terra e sangue, proprio come le preghiere che le vengono rivolte in tale sudicio contesto morale. Il senso della vita viene tramandato di generazione in generazione facendo riferimento a animali fortemente simbolici, come agnelli, lupi, cani e leoni. Che si tratti della parabola del figliol prodigo o di quella della pecora smarrita, oppure che in una grotta la puerpera della vergogna allatti al biberon l’agnello di cristiana memoria, i lunghi silenzi e le soavi composizioni visive peccano spesso di un simbolismo sgraziatamente gridato.

Le varie dicotomie, su tutte quella tra spirituale e bestiale, sono così meditate e bilanciate dal punto di

vista della forma, da rivendicare in modo smaccato di poter assurgere al “regno dell’arte”. Ecco quindi che “Ti mangio il cuore” finisce col trasformare il suo pregio, l’estetica impattante, nel suo limite.

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