Dopo otto anni di assenza dal set e dal Lido di Venezia, Julian Schnabel torna con un nuovo film, "At Eternity’s Gate", biopic sugli ultimi anni del pittore Vincent Van Gogh.
Oltre a raccontare fatti salienti come l'allontanamento dell'amico Gauguin, la pellicola si concentra sul significato che la pittura ebbe per l'artista, in termini di dannazione e benedizione. L'atto creativo, infatti, in Vincent (interpretato da Willem Dafoe) si nutre della comunione con la bellezza spirituale che vibra nel creato, ma ha anche un prezzo da pagare: quello del progressivo spossessamento di sé.
Il furor con cui dipinge, nel film, contiene il seme sia dell'ascesi sia del tormento e ogni sentore d'eternità celeste, a tempo debito, è espiato con la comparsa del buio nella mente.
Dafoe è perfetto nel ruolo e il suo trasformismo ineguagliabile fin dai tempi in cui fu Pasolini per Abel Ferrara. Nel corso della narrazione è un sottile piacere riconoscere luoghi e volti la cui sostanza transitoria, di lì a poco, diventerà immortale nei quadri.
Schnabel è in grado di condurre all'interno del punto di vista del grande pittore, forte del fatto che egli stesso crea da moltissimi anni opere esposte nei più importanti musei del mondo.
"At Eternity's Gate" è colmo di soggettive nelle quali i nostri occhi coincidono con quelli del protagonista: l'effetto è visivamente splendido, specie nelle passeggiate tra spighe di grano che sembrano trasfigurare nelle celebri pennellate che tutti conosciamo.
La vicinanza con la natura si fa totalizzante e trova nell'accompagnamento musicale la descrizione puntuale di una crescente armonia. Vincent arriva a sdraiarsi e coprirsi la faccia di terra, per poi alzarsi e contemplare il cielo fin dove terminano gli slanci arborei. Ha i sensi vigili, orientati a cercare una via che porti a colui da cui tutto origina.
Lo osserviamo vivere momenti estatici in cui, in un silente bianco e nero, ha di fronte solo il paesaggio e il medium della tela.
Sordo di fronte ai burberi suggerimenti di Gauguin e suscettibile invece alle critiche degli estranei, il Van Gogh di Schnabel è certo che il suo talento sia un dono di Dio e anela a sdebitarsene mettendo la luce al posto d'onore nei suoi quadri.
Lo stato febbrile in cui nascono le sue opere, dipinte sempre a grande velocità, è abbandono a una sorgente che è allo stesso tempo interiore ed esteriore.
"Ogni realtà dipinta è una realtà a sé", dice a un certo punto il protagonista, e quella di "At Eternity's Gate" è la versione di Van Gogh firmata da Schnabel. Tra le più plausibili e appaganti passate sul grande schermo perché profonda e aderente all'intimo sentire di chiunque viva la sua arte come missione esistenziale.
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