Non c'è avvenimento, in Formula 1, che non richiami alla memoria la figura del grande Enzo Ferrari, direttamente o indirettamente, per analogia o per contrasto. Perciò, il modo migliore di commemorare il venticinquesimo anniversario dalla sua scomparsa è quello di immaginarlo presente nello scenario odierno: cosa penserebbe? cosa direbbe? cosa farebbe? I quarant'anni circa vissuti molto vicino a lui mi inducono a ritenere che sicuramente oggi combatterebbe le manipolazioni e le trasgressioni. Uno spirito libero come il suo - e amante della più rigorosa equità nella competizione - non avrebbe mai permesso che qualcuno alterasse il quadro delle prestazioni o infrangesse i regolamenti, per interessi di parte, come quelli legati alla presunta accentuazione dello spettacolo televisivo, servendosi delle gomme di burro, degli aberranti pit-stop o delle concessioni a squadre che, fatte artificiosamente rinascere, con i grandi nomi del passato, sono conseguentemente destinate a mietere successi.
Attualmente, a Maranello, si limitano a dire, assai pragmaticamente: «No al mondiale gomme». E poi basta. Invece, il Commendatore dei vecchi tempi o l'Ingegnere degli ultimi, evoluti atti avrebbe sfoderato la sua irresistibile spada e avrebbe combattuto strenuamente, trascinandosi tutti i veri uomini di sport e di tecnica. Contro la Fia, come al tempo dell'omologazione della famosa berlinetta Le Mans. O come nel giorno del clamoroso ritiro della monoposto rossa, sostituita da una F.1 bianca e blu. O come nel periodo dell'avversione alla famigerata Foca, creata da Ferguson e subito usurpata da Ecclestone. O come in occasione del memorabile gran premio sudafricano, per un fallito campionato mondiale alternativo. Quello era il Ferrari da tutti amato e ammirato. Quello era il Ferrari che non esitava a chiamare in causa - e ottenerne la massima soddisfazione - lo stesso presidente dell'Automobile Club d'Italia, essendo la Fia una federazione di Auto-Club nazionali ed essendo l'Italia privilegiata, come «Paese Grande Costruttore».
Quello era il Ferrari che avrebbe gridato: se la casa della stella a tre punte vuol tornare a conquistarsi una posizione in Formula 1, come nel 1954, si costruisca la sua macchina in quel di Stoccarda, anziché comperarsi una miracolata squadretta inglese, regalata dalla Honda a Ross Brawn e assecondata dal manipolatore e dalla Fia-Tv, ad onta dell'illecito double decker mondiale. Che affare! E mi è facile immaginare anche quanto il Drake avrebbe tuonato il giorno in cui il presidente della Pirelli, incontrando Ecclestone in Turchia, sotto le telecamere della BBC, a microfoni aperti, si è affrettato a dirgli: «Visto che non abbiamo favorito la Ferrari?» E poteva anche aggiungere «Stiamo pensando, secondo richiesta, di favorire la British-Mercedes, con un proibitivo test di 1.000 chilometri, che permetta cento pole e molte vittorie». Quello così delineato è il forte Ferrari di sempre, quello che dominava le scene da un capo all'altro, dal rapporto con lo sponsor, fin da quando non era così chiamato, alla scelta dei grandi progettisti, stimolati lungo la strada del progresso, all'investitura di direttori sportivi capaci e autorevoli, o al richiamo dei campioni più autentici.
Cosa avrebbe detto di un Alonso in veste di Reuccio? La mia convinzione è che nemmeno l'avrebbe mai ingaggiato. «Non voglio piloti gallonati», mi ripeteva sempre. Ed ecco la scomunica, sempre contemplata nei contratti, a chi tentava di esprimere giudizi o pareri sulle sue macchine. «Il pilota non è un ingegnere: deve guidare e basta», era il suo credo.
Il gioco di squadra, tipo Hockenheim, era per lui un retaggio dell'automobilismo arcaico, ma solo ed esclusivamente nell'interesse indiscusso del Cavallino, non già per personalismi o per allietare uno sponsor pronto a sborsare centomila dollari di multa. In una parola, il solo grande uomo, votato alla conservazione e all'esaltazione di tutti i valori più alti dello sport dell'automobile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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