Se Gimbo Tamberi non ci fosse bisognerebbe davvero inventarselo. Con lui non ti annoi mai e nell'aria fresca di Eugene ci ha fatto piangere e sospirare per raggiungere la finale del salto in alto di lunedì notte. Un viaggio nel mondiale come soltanto lui poteva fare. Vigilia tormentata con il divorzio dal padre allenatore che ieri, per fortuna, era alla balaustra per dargli i messaggi giusti quando nella qualificazione si è trovato spalle al muro, un posto da dove Gianmarco trova spesso il vestito per diventare uomo ragno oltre le asticelle del salto in alto. Lui è così, deve arrampicarsi usando le unghie che soltanto certi campioni hanno. Lo ha fatto quando un grave infortunio gli rubò la gloria olimpica a Rio, ha risalito la montagna fino alla gioia dell'oro nel deserto di Tokyo. Festa grande, anche troppo, 11 chili in più di peso da smaltire, una medaglia ai mondiali indoor, anche senza saltare davvero oltre i suoi limiti. Poi feste e brindisi, la presenza sul campo alla partita delle stelle NBA nel basket la sua passione giovanile.
La strada per arrivare a questo mondiale è diventata un tormento quando le gambe non rispondevano come voleva lui, quando un dolore alla gamba di stacco lo ha mandato fuori giri. Un titolo italiano vinto nel veleno, altri problemi, la rottura del rapporto con il padre allenatore, il riavvicinamento, la ricerca del suo cielo nella quiete dell'Oregon. Capitano con belle parole da regalare agli altri, figliol prodigo capace di ascoltare il padre che lo ha tirato fuori dai sacchi dove stava annegando nella infelicità di due prove sbagliate a quota 2.25 e poi a 2.28 sulla porta d'entrata per un'altra finale mondiale, ma anche passaggio sulla barca dei delusi dove è finito il Fassinotti con cui aveva chiuso male la notte di Rieti (ma prima della gara gli aveva chiesto scusa pubblicamente) vincendo il titolo tricolore agli spareggi su una misura modesta.
Quando stavamo già preparando il quaderno con tutte le accuse possibili ecco il capitano ritrovare la sua strada fra le urla dei bambinetti che hanno sfilato svogliati nella parata delle 194 bandiere dei paesi partecipanti a questo mondiale. Ci ha messo un bel po' per credere a quello che diceva suo padre Marco, ci ha messo un paio d'ore per uscire dall'incubo ed entrare nella finale a 14 che darà il titolo mondiale, l'unico oro che gli manca, un diamante da aggiungere proprio al titolo indoor vinto non lontano da Hayward Field, sulla pedana del palazzo di Portland.
Ora il riposo, la meditazione avendo visto che Woo e, soprattutto, il suo grande amico Barshim con il quale ha condiviso l'oro olimpico, sembrano avere ali diverse dalle sue. Il bello è, come sanno i suoi avversari, che quando ha le spalle al muro lui si toglie la maschera e va dove lo corteggiano le aquile.
Il mondiale che aspetta l'atletica miracolosa degli italiani scoperta ai Giochi giapponesi ora ha scoperto che anche in stagioni balorde questi cavalieri trovano motivazioni e spinte anche se dentro la macchina non funziona al meglio come potrebbe confessare il Jacobs visto così poco in pista.
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