"Il Giro ci confermerà che l'Italbici non c'è più. E il peggio deve arrivare"

L'allarme del due volte vincitore della corsa rosa, iridato e scopritore del fenomeno Pogacar

"Il Giro ci confermerà che l'Italbici non c'è più. E il peggio deve arrivare"

Da corridore era bravo a sfruttare le debolezze degli avversari, giocando spesso di rimessa, ma se c'è da esprimere un pensiero, Beppe Saronni, il signore di Goodwood, non è solito trincerarsi dietro un comodo quanto stucchevole «no comment». «Il primo arrivo, quello di oggi, su al Castello di Budapest mi sarebbe chiaramente piaciuto dice l'ex campione del mondo vincitore di due Giri -, ma è chiaro che piacerà anche a corridori come Mathieu Van der Poel, Alejandro Valverde o all'eritreo volante Biniam Girmay, tutti corridori esplosivi e veloci».

Cosa pensa della partenza da Budapest?

«È una vetrina del Giro sul mondo, anche se siamo lì a due passi dalla guerra. Capisco che gli organizzatori avessero preparato tutto da tempo, diciamo pure da anni e, chiaramente, si va a prendere soldi dove ce ne sono, ma è altresì vero che l'Ungheria non è un Paese che in questo momento mi attiri molto».

Cosa pensa del Primo Ministro Viktor Orbàn?

«Se fosse stato un corridore avrei evitato di trovarlo in corsa».

Il Giro d'Italia numero 105 scatterà oggi con una prima tappa all'insù, che invita subito alla sfida. Gli ultimi 3 km, per arrivare al Castello di Visegrad, hanno una media del 5% e punte dell'8%.

«È un bello strappo, che potrebbe evitare una volata tra uomini veloci, ma non è detto. La salita sarà il ritornello di questa edizione, visto che ha quasi 51mila metri di dislivello e appena 26 km a cronometro, mai così pochi dal 1962, quando non ce n'erano».

Da Budapest a Verona: chi sono i suoi favoriti per la vittoria finale?

«Su tutti il campione olimpico di Tokyo Richard Carapaz: chiaramente è l'uomo da seguire e inseguire, visto che nel 2019 è già stato capace di vincerlo un Giro. Poi occhio a Simon Yates e Joao Almeida, ma anche a Romain Bardet e Tom Dumoulin, così come Miguel Angel Lopez. Però spero anche nella nostra adorata Italia: Giulio Ciccone e Lorenzo Fortunato in primis, più gli eterni Vincenzo Nibali e Domenico Pozzovivo, che è probabile che qualcosa ci possano pur sempre inventare».

Noi italiani possiamo sperare in qualche giovane?

«Dobbiamo. Spero che ci diano qualche segnale, ad incominciare da Giovanni Aleotti (è nato il 25 maggio 1999: modenese della Bora-Hansgrohe, ndr), così come Filippo Zana (18 marzo 1999: vicentino della Bardiani Csf Faizanè, ndr) e Alessandro Covi (28 settembre 1998: varesino della Uae Emirates, ndr)».

Si è fatto un'idea sul perché fatichiamo così tanto per trovare altri talenti, altri Nibali?

«Facciamo finta di niente da troppo tempo, e ci nascondiamo dietro alla Roubaix di Colbrelli. Il ciclismo italiano lo vedo malissimo. Guardi le corse e ti chiedi: dove sono gli italiani? Non siamo più protagonisti e soprattutto non ci sono italiani che corrono. Non ci sono più i numeri, e sarà sempre peggio».

Dal 2000, l'Italia delle classiche di primavera non andava così male: Vincenzo Albanese 11° alla Sanremo è stato il migliore.

«Se l'Italia resterà appesa a quei pochi talenti naturali come Ganna che vengono fuori casualmente, non avrà via di scampo. L'offerta degli sport si è moltiplicata, la strada è pericolosa, i genitori hanno paura. In Italia non mancano le risorse e i soldi, ma i progetti veri.

La prima cosa da fare? Investire sul ciclismo di base, aiutare le società e le famiglie, creando un'Academy nazionale per raggruppare i migliori giovani. Non abbiamo altro tempo da perdere, perché di Nibali non ne abbiamo più. Questo Giro, temo, che non farà altro che confermarcelo».

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