Al suo mister, Oronzo Canà, l'avevano preso per un c...; a lui, invece, l'avevano preso per un bidone. Canà era l'allenatore (nel pallone, ovviamente), mentre Aristoteles era il centravanti brasileiro malato di saudade.
Quando, nel 1984, Lino Banfi gli fece il provino per il ruolo di malinconico «bomber di colore», lo svizzero di origine nigeriana Urs Althaus aveva 28 anni, ma già un grande avvenire dietro le spalle: primo fotomodello con la «pelle scura» a finire sulla copertina di GQ, amico di grandi personaggi dello showbiz, vita spericolata. Il pericolo di sbandare. La forza di rimettersi in carreggiata.
Ora, a 64 anni, e con un approccio maieutico alla vita decisamente più socratico, l'ex Aristoteles è diventato anche scrittore: la sua autobiografia Io, Aristoteles, il Negro Svizzero (Bibliotheka edizioni).
«Negro» nel titolo? Chissà le critiche...
«Vogliamo mandare un segnale forte, contro il politicamente corretto».
E contro il razzismo.
«Una ferita sempre aperta».
Patita in prima persona?
«Sì, in tutti gli ambienti professionali che ho frequentato: calcio, cinema, spettacolo, moda».
Ora il clima è cambiato?
«Non tantissimo. Basta osservare quello che accade negli Stati Uniti. E non solo lì».
Lei nel film «L'allenatore nel pallone», il cult movie che l'ha resa celebre nel nostro Paese, trova conforto in «mister Canà».
«Lino (Banfi, ndr) teneva moltissimo alla scena dove gli confidavo di essere emarginato per il colore della pelle. Prima del ciak si raccomandò...».
Cosa le disse?
«Le sue parole furono: Questa scena ha un valore educativo fondamentale. Va interpretata con sentimento».
Non è servito a molto, almeno a giudicare da quanto si vede e si sente negli stadi.
«È triste ammetterlo. Ma è proprio così».
Come nacque l'idea del nome «Aristoteles»?
«Fu una trovata del regista Sergio Martino».
Un'intuizione vincente che ha condizionato la vita del signor Urs Althaus.
«Me l'ha rivoluzionata. Ancora oggi gli autografi li firmo Aristoteles».
Il segreto del successo di quella pellicola?
«L'Italia usciva da un periodo storico delicatissimo. C'era voglia di leggerezza».
Perfetto per uno come lei, dai piedi niente affatto pesanti...
«Durante il provino Lino mi disse che avevano bisogno di un palleggi(attore). Cominciai ad accarezzare il pallone con destro e sinistro, e subito Oronzo mi ingaggiò: Ok, per me va bene».
In Italia lei è ancora popolarissimo.
«Sono cittadino svizzero, ma l'Italia è nel mio cuore. Di recente qui mi ha fermato la polizia: temevo una multa, invece gli agenti volevano farmi i complimenti e stringermi la mano».
Qual è la scena del film che l'ha divertita di più?
«È una storia comica dall'inizio alla fine. Ma quando mister Canà, ballando con la sorella di Eder, scopre che si tratta di un uomo, se ne esce con un'espressione di una comicità irresistibile. Ogni volta che ci ripenso rido a crepapelle».
Lei nel film segna un gol, battendo una punizione da campione.
«Tutto merito di Carletto».
Carletto chi?
«Carletto Ancelotti. Anche lui come Zico, Graziani, Pruzzo, De Sisti, Spinosi, Chierico, Scarnecchia e Damiani faceva parte delle comparse calcistiche del film. Quando arrivò la scena della punizione, Carletto si avvicinò e mi disse come dovevo posizionare il corpo al momento di calciare il pallone».
Lezione proficua?
«Palla all'incrocio dei pali e Longobarda in vantaggio».
A proposito, lei nel campionato italiano per chi tifa?
«Io tengo solo per la mia Longobarda».
Ma c'è una squadra che assomiglia alla sua Longobarda?
«L'Atalanta. Tra i ragazzi guidati da Gasperini si vede che c'è un grande spirito di gruppo».
Per fortuna senza elementi di disturbo, come il disonesto «Speroni» o lo iettatorio «Crisantemi»...
«Anche su quel fronte il film è stato profetico, anticipando il fenomeno di Calciopoli e denunciando un certo tipo di arretratezza culturale che ancora caratterizza alcuni ambienti calcistici».
Qual è il suo mito calcistico?
«Pelè. Che ho avuto l'onore di conoscere negli States».
E un campione di oggi?
«Ammiro Ronaldo».
Ma è vero che, nel 1973, quando giocava in Svizzera, la scambiarono per Teofilo Cubillas?
«Quando entrai allo stadio ci fu una standing ovation. E il giorno dopo, in tutte le edicole, c'era la mia foto con scritto benvenuto. Incredibile, ma vero».
Ha «rischiato» anche di esordire nei Cosmos.
«Me lo propose il mio amico Franz Beckenbauer, ma preferii continuare a fare il fotomodello».
In passerella e sui set cinematografici (ha recitato anche nel colossal «Il nome della rosa», ndr) tante soddisfazioni, ma anche qualche amarezza. Come quello scatto negato accanto a Susan Sarandon...
«Ero sottobraccio a lei. Ma al momento della foto, mi dissero che era meglio se mi fossi allontanato...».
Anche negli hotel di lusso a volte si è sentito a disagio...
«I camerieri rimanevano perplessi quando uno come me ordinava champagne...».
A Manhattan conobbe Luciano Pavarotti in una maniera alquanto originale...
«Era il mio vicino di casa, ma non lo conoscevo. Io avevo un cane con il vizio di abbaiare troppo. Una mattina venne a protestare e io gli dissi che anche lui, col suo vocione, non mi faceva dormire la notte. Quando capii chi avevo di fronte, scoppiai a ridere. Da allora diventammo amici».
Nella sua autobiografia dice di aver vissuto «almeno dieci vite» e che «le mancano tutte». Ma una, di certo, non le manca.
«Sì. Quel breve periodo della vita in cui ho incontrato la droga. Un giorno mi guardai allo specchio, e ciò che vidi non mi piacque».
Aveva preso una strada sbagliata.
«Mi dissi: Così non puoi più andare avanti».
Come si è salvato?
«Con tanta forza di volontà. E un assist divino: quello del Signore».
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