C'è una ragione in più per assegnare uno scudetto a Conte Antonio, allenatore di squadra di calcio non per caso. Non per caso come la fluttuante marea di oratori calcistici, tecnici, giocatori, talvolta dirigenti, che raccontano di un mondo lunare. Fra le tante conferenze di questo anno di grazia, sua, l'ultima è stata esemplare nel dimostrare che l'allenatore dell'Inter vive per lo sport, ma comprende le ragioni di grandi club in affanno finanziario. Magari gli sarà servita la compagnia cinese, che lo ha angustiato con gli spigoli economici dei quali ha dovuto prendere atto. O magari sarà ancora memore della convivenza professionale con Andrea Agnelli al quale chiedeva di mettersi al tavolo di ristoranti stellati.
Comunque Conte ha dimostrato di conoscere la materia del contendere fra Uefa ed ex Superlega, a differenza di colleghi e giocatori che, probabilmente, neppure sanno quando gli agenti si presentano a chiedere congrui aumenti di ingaggio che vanno al di là della tenuta dei bilanci e del reddito di sopravvivenza. E lo ha dimostrato senza nascondersi dietro la retorica del calcio che si culla nell'appartenenza e nei valori sportivi. Intendiamoci: non ha disconosciuto tutto ciò. «Da uomo di sport penso che non bisogna mai dimenticare le tradizioni e nemmeno passione e meritocrazia». Ma detto questo, ha preso l'Uefa per le corna e l'ha fatta roteare per aria. «Rifletta: si prende tutti i diritti e riserva una piccola parte ai partecipanti. I club mettono giocatori che vengono spremuti come limoni, e alla fine ci rimettono le società che investono. I club devono essere premiati in modo più congruo. Se prendi dieci e gli dai tre non è giusto».
Non c'è stato alcun altro così immediato, preciso, perfino dettagliato in una sintesi estrema per spiegare dove sta il peggio del sistema pallonaro. Ceferin, presidente Uefa, si è fatto passare per vittima, poi per vincitore ed ora sta usando toni dittatoriali. Ma il problema glielo ha riproposto un tecnico avvezzo ai conti con i bilanci dei club: le sue voglie di allenare eccellenti e costosi giocatori spesso si sono scontrate con gli equilibri finanziari di grandi società. Non certo un Sassuolo, per esempio, dove l'allenatore parla come vivesse su Marte. Roberto De Zerbi, lui forse allenatore per caso, dapprima ha sostenuto che non avrebbe voluto giocare contro il Milan, reo di lesa maestà alla fiaba pallonara: dimenticando che gli bastava dimettersi dall'incarico. Poi ha raccontato che il calcio non è un'azienda. Già, lo vada a spiegare allo sponsor-padrone che, con cospicuo esborso, tiene in piedi la sua Juve della provincia. Per non parlare della filosofia nel forbito parlare del Guardiola perfettino. «Quando non esiste relazione tra impegno e risultato, non è più sport».
Al quale andrebbe domandato: «E quando non esiste relazione tra i vostri eccessivi guadagni e risultato, quello è sport?». Ecco perché va tanto di cappello alla sfrontata ed onesta chiarezza di Conte: uno che vive per il calcio, ma nel calcio.
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