"L'arrivo di Berlusconi come una slavina in un piccolo stagno"

L'ex tecnico: "Ha rappresentato il rinascimento del calcio italiano che vinse 16 trofei internazionali in 10 anni e la Nazionale salì 2 volte sul podio mondiale"

"L'arrivo di Berlusconi come una slavina in un piccolo stagno"

Oggi è il giorno della prima edizione del trofeo intitolato a Silvio Berlusconi disputato da Monza e Milan per motivi scontati: scusi Arrigo Sacchi ci racconta cosa ha rappresentato Silvio Berlusconi per il calcio italiano?

«Per rendere l'idea è meglio ricorrere a una metafora: Berlusconi è stato una slavina precipitata in un piccolo stagno. Ha stravolto antiche abitudini, vizi e pigrizie presentando idee nuove che erano il frutto di coraggio, entusiasmo, generosità e competenza. Posso dire con convinzione che ha dato vita al rinascimento calcistico italiano. A conferma cito un solo dato: dal maggio del 1989, data in cui il mio Milan vinse la coppa dei Campioni a Barcellona, al 1999, i club italiani hanno totalizzato qualcosa come 16 coppe internazionali. La Nazionale italiana poi ha centrato il 3° posto nel '90 e un'altra volta la finale nel '94, persa ai rigori con il Brasile. Insomma con la sua novità Berlusconi ha svegliato un po' tutti».

Vuole dire che tutto è cominciato in quella famosa estate dell'87 con il suo arrivo a Milanello?

«Quando mi chiamarono ad Arcore per il primo contratto, io fui sincero. Dissi: o siete dei geni o siete dei pazzi e firmai. Ci voleva un coraggio incredibile per andare a Parma e scegliere, dopo Liedholm, un allenatore che non era mai stato in serie A. Perciò sulle prime pensarono tutti che fossimo due sognatori».

Come fu l'inizio di questo storico sodalizio umano e calcistico?

«Berlusconi non fu bravo, fu bravissimo. Perché senza il suo sostegno non ce l'avrei fatta a superare le prime difficoltà. Insieme scegliemmo le persone più che i calciatori perché confidavo di poter accomodare i piedi ma non la testa. All'inizio mi chiese di telefonargli tutti i giorni, verso sera. Parlare di calcio dopo una giornata di lavoro mi rilassa, spiegò».

Quale fu la prova del fuoco?

«Avvenne dopo la sconfitta di Lecce con l'Espanol. Il giorno dopo i commenti dei giornali mi fecero a pezzi, nemmeno i gerarchi tedeschi processati a Norimberga furono trattati così duramente. A quel punto Berlusconi mi chiese: ha bisogno? Risposi: si. E lui si presentò a Milanello il sabato mattina. Non passò dagli spogliatoi ma si fermò nel suo ufficio al primo piano e convocò calciatori e allenatore. Parlò per 23 secondi. Disse: Io ho la totale fiducia nel vostro allenatore. Chi lo seguirà resterà, chi non lo seguirà andrà via. Non perdemmo più una partita. Anzi in verità ne perdemmo una, con la Roma a San Siro, per via di un mortaretto».

Non ci dica che ha ancora quel rammarico...

«Ne ho anche un altro, in verità: la moneta da 100 lire caduta sulla testa di Alemao che ci costò il secondo scudetto. Anni dopo incontrai Alemao, diventato procuratore, a Madrid e davanti a Butragueno e Ramon Martinez confessò il disappunto per essersi prestato a quella sceneggiata».

Eppure quell'episodio fu in qualche modo importante per il calcio italiano...

«Certo perché, sulla spinta di Berlusconi, venne abolita la regoletta dello 0 a 2 a tavolino. Da allora non si sono più verificati casi Alemao. Non solo. Silvio propose in anticipo la formula attuale della Champions league adottata negli anni novanta ma nel frattempo pagammo un dazio molto pesante».

A cosa si riferisce in particolare?

«A Belgrado gol dentro di un metro e mezzo non visto dall'arbitro tedesco, idem a Brema col Werder e a Madrid quando fischiarono a Gullit un fuorigioco inesistente. Si capì poi che Berlusconi fu trainante perché conosceva il mondo, amava innovare, s'impegnava nella cura dei dettagli e aveva il bel gioco in testa».

Ci fu anche qualche contrasto, per esempio l'acquisto dell'argentino Borghi da lei mai accettato...

«Io volevo allenare i miei ad andare a mille all'ora, non tutti erano disponibili, Borghi tra questi. Perciò mi opposi al suo arrivo. Fedele Confalonieri commentò: i no che lei ha detto a Silvio in un pomeriggio non li ho sentiti in un anno! Mi ha dato tantissimo Berlusconi, ho provato a ripagarlo seguendo le mie idee. Non ha smesso di essere generoso con me anche quando lasciai il Milan per la Nazionale».

Ci racconti...

«Durante il congedo, Berlusconi mi donò le copie originali delle coppe dei Campioni e Intercontinentali vinte che adesso si trovano a Fusignano. Non solo. Anche se mi ero dimesso a giugno, nei mesi successivi continuai a ricevere lo stipendio mensile fino a novembre quando divenni ct della Nazionale. Chiesi alla segretaria dell'epoca: forse vi siete sbagliati. No no, mi rispose. Scoprii più tardi che fu il gesto elegante di Berlusconi che aveva ricevuto una visita di Montezemolo, emissario dell'Avvocato Agnelli, per chiedere di lasciarmi andare alla Juve. Eppure sapeva che non sarei mai andato a Torino».

E lei cosa regalò al presidente Berlusconi?

«Credo che il dono più prezioso fu il riconoscimento venuto dall'Uefa che ha definito il Milan dell'89 la squadra più grande della storia mentre per il settimanale francese France Football siamo stati solo i più grandi del dopoguerra. Per Silvio fu la chiusura del cerchio disegnato nell'estate dell'87 al castello di Pomerio quando ci affidò la missione di diventare la squadra più forte al mondo. Io gli risposi allora: può essere frustante come traguardo ma anche limitativo. E dopo quelle due medaglie, in un colloquio, gli ricordai che l'aggettivo limitativo aveva proprio quel significato».

Sbagliamo o negli anni successivi ci furono altre proposte di lavorare ancora insieme?

«Una volta mi chiese se fossi disponibile a dargli una mano come ministro dello Sport e di recente mi propose di rimettermi in gioco a Monza. A mia volta nel tempo mi permisi di consigliargli due nomi: Sarri e Dybala per il Milan. Non se ne fece nulla un po' per gli spigoli di Maurizio e per il prezzo salato pagato poi dalla Juve».

Ultima domanda: si ricorda dove apprese la notizia della scomparsa di Silvio Berlusconi?

«Si, ero a casa, con la tv accesa e ho sentito la notizia in diretta. Quel giorno non sono più uscito di casa».

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