Londra - L’ossessione di Roman Abramovich per la Champions League. La consapevolezza di un gruppo che sa di non avere davanti a sé altre occasioni. L'ambizione di Roberto Di Matteo, ultimo italiano in Europa. La voglia di rivincita dopo la beffa del 2009. Ma soprattutto la fiducia ritrovata di una squadra che in sei settimane ha raddrizzata una stagione che pareva irrimediabilmente deragliata. Perché l’arrivo di Di Matteo sulla panchina del Chelsea è coinciso con la riscossa dei blues. Domenica scorsa hanno conquistato la finale di Fa Cup, in campionato restano in scia del quarto posto, in Europa hanno passato due turni dopo l’esonero di André Villas-Boas. Anche grazie ad una solidità domestica che ha garantito fin qui cinque vittorie in altrettanti incontri internazionali, 16 gol all’attivo e solo due subiti.
Ma Londra è una città prediletta nella storia calcistica del Barcellona. Perché qui, per la precisione nello stadio di Wembley, ha centrato due dei suoi quattro allori internazionali (1992 e 2011). Vittorie sontuose ma anche rocambolesche. Come nel 2009 quando un gol nei minuti di recupero di Andres Iniesta nel ritorno allo Stamford Bridge aveva spalancato le porte della finale di Roma. Proprio a scapito del Chelsea. Una beffa atroce, una ferita ancora aperta, come ha ammesso Di Matteo: «La rabbia per quella partita c’è ancora nello spogliatoio ma dobbiamo guardare avanti e pensare positivo. Perché per battere la squadra più forte del mondo avremo bisogno di due partite perfette. Le ultime sei settimane però ci hanno convinto che possiamo disputarle, due partite perfette».
Anche per esorcizzare il ripetersi della storia. Alla sesta semifinale europea negli ultimi nove anni, solo una volta il Chelsea ha raggiunto l’ultimo palcoscenico. A Mosca nel 2008, perdendo ai rigori contro il Manchester United. «Ma noi sappiamo che il nostro modo di giocare può creare problemi al Barcellona. In casa dovremo stare molto attenti a non concedere gol ma vogliamo anche un buon risultato», sorride Di Matteo che resta con il dubbio tra Didier Drogba e Fernando Torres. E allontana la tentazione di una marcatura speciale per Lionel Messi. «Sarebbe sbagliato concentrarci solo su di lui, perché il Barça possiede altri nove giocatori che possono segnare in ogni momento». Grazie ad un sistema tattico cesellato da Pep Guardiola («un punto di riferimento per chi fa questa professione»).
Pep però appare teso, come chi sa che in una settimana darà un senso all’intera stagione. Le due partite contro il Chelsea a cavallo del Clasico di sabato al Camp Nou. Ultima chiamata per la Liga. Perché se la striscia di 11 vittorie consecutive ha riportato i blaugrana a -4 dalle merengues, niente di meno che una vittoria può alimentare le loro ambizioni domestiche. «Ma confermarsi è sempre più difficile che vincere», ammonisce Guardiola che sogna di emulare il Milan, l’ultima squadra dal 1990 ad essere riuscita a restare sul tetto d’Europa per due anni di fila. E non risparmia una frecciata velenosa a Zlatan Ibrahimovic che aveva accusato il suo Barcellona di essere una squadra di cascatori. «Il signor Ibrahimovic conosce alla perfezione questi giocatori perché ha giocato con noi un anno. E sa che noi pensiamo a giocare. I tuffi si fanno in piscina».
In sei gare contro il Chelsea. Messi non ha mai segnato. L’occasione più opportuna per interrompere il digiuno, nella stagione più florida: 41 gol in Liga e 14 in Champions League. «Non ci sono parole, la sua carriera è un susseguirsi di record battuti», il complimento di Frank Lampard.
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