Pelé, icona e sovrano mai monarca e dittatore

Gli 80 anni di chi ha riassunto il cancio in 4 lettere. Campione che unisce, leggenda che supera la verità.

Pelé, icona e sovrano mai monarca e dittatore

C'era la televisione in bianco e nero. E c'era Pelé. C'era la televisione a colori. E c'era Pelé. C'è, oggi, un tempo di mille altre cose e pensieri. E c'è ancora, sempre Pelé. Re e sovrano mai monarca e dittatore, nero di pelle in un'epoca impossibile per chi si portava addosso quel colore, icona come Marcellus Cassius Clay ma più universale dopo che Mohammed Alì si convertì all'Islam e rifiutò il Vietnam.
Quando la leggenda supera la verità è bello godere e sognare nella leggenda, così accadde il 19 novembre del Sessantanove quando il re segnò su calcio di rigore, con la maglia bianca del Santos, il suo gol numero mille senza che nessuno avesse la contabilità esatta di quel record. Ma era la fiaba da raccontare. Per venti minuti la partita venne interrotta e il re fu portato in trionfo sul prato del Maracanà, alveare di pazza gente. Pelé aveva allora ventinove anni, non era soltanto il ragazzino del passato, il campione del presente. Era già il calciatore del futuro.
Si può essere pro o contro Maradona, a favore di Cruyff, contro Di Stefano ma Pelé non divide, non prevede fazioni, opinioni differenti. È il football riassunto in quattro lettere, è la storia del gioco esaltata in un dribbling, in un tunnel, in un colpo di testa, in una rovesciata, è la recita dell'artista nell'aria del mondo. Le sue cosce ipertrofiche, il tronco potente, la fulminea e felina rapidità dei movimenti, quasi accucciato sull'erba, lo rendevano diverso fra gli uguali, il gol realizzato al mondiale di Svezia, nel Cinquantotto, fu la prima pagina della sua favola e racchiuse la bellezza di questo gioco, fu Vavà a rendergli il pallone, il ragazzo di diciassette anni lo raccolse stoppandolo di petto, anticipò l'arrivo goffo dell'armadio svedese Gustavsson, con il tocco perfido del sombrero, così definito, da quel giorno, il pallonetto sopra la testa, e con il piede destro scaricò alle spalle del portiere Svensson il gol del 3 a 1. Fu il primo coriandolo di un carnevale lungo e trionfante in tre mondiali.
In Inghilterra, nel Sessantasei, Pelé venne aggredito dagli avversari gelosi e invidiosi, fu il bulgaro Petkov a marchiarlo per primo, poi venne Joao Morais, un maniscalco portoghese che picchiò due volte, in modo feroce e premeditato, il ginocchio del re, fu la fine del mondiale per il Brasile, per il suo campione e per la giustizia del football violentata dall'arbitro inglese McCabe che non prese alcun provvedimento nei confronti del killer. Fu il funerale dopo la festa. Non fu quello a fermare Pelé, quattro anni dopo Tarcisio Burgnich tentò di salire nell'aria dell'Azteca per impedire al monumento di colpire di testa, il pallone finì avvelenato e velenoso alle spalle di Ricky Albertosi, fu il terzo mondiale vinto da Pelé, così chiamato dai suoi compagni di scuola, fanatici, come lui, di Bilé, portiere del Vasco de Gama. L'elettricità era appena arrivata nel municipio di Tres Coracoes, nel Minas Gerais e, all'ufficio dell'anagrafe, Joao Ramos do Nascimento e sua moglie Celeste si presentarono per iscrivere il neonato al quale venne dato il nome in omaggio all'inventore statunitense Thomas Alva Edison, storpiato in Edson. Sarebbe stata luce anche nel football, gli ottant'anni compiuti oggi hanno il tulle della malinconia, le gambe del re non sono più quelle del sombrero svedese, i pensieri corrono come i mille e più gol, sono i finestrini di un treno che viaggia veloce davanti agli occhi di un testimone che può riconoscere tutti i passeggeri di quel convoglio. Sono i viaggiatori di un'epoca irripetibile, Pelé è stato il narratore di un calcio che non è mai finito e che mai finirà.
Lo ha traghettato in America, ai Cosmos di New York, fu Cristoforo Colombo di un gioco che gli yankee snobbavano, lo ha illustrato nel film di John Huston Fuga per la vittoria, con una rovesciata spettacolare che chiuse la bocca ai gerarchi nazisti. Siamo stati fortunati a essere schiavi noi di Pelé, riscatto di un ragazzo che ha regalato la realtà a un Paese, il Brasile, che conserva profumo e fascino lontani, il riscatto di un uomo che ha offerto sogni al resto dell'universo affollato dagli appassionati per questo sport unico. Ho avuto il privilegio di conoscere, frequentare, diventare amico del re, fuori dai campi di football, di aiutarlo a curare una ferita al muscolo della gamba che non gli avrebbe permesso di partecipare alla festa dei suoi cinquant'anni, nello stadio di San Siro, su quello stesso prato dove Giovanni Trapattoni passò alla storia, proprio per aver fermato O' Rey.

Conservo un quadrifoglio racchiuso in un rettangolo plastificato, con la firma Do amigo Pelé, è una specie di mio Oscar o Nobel privato, personale, memoria di giorni, di sere, di partite, di gol, infine una fetta di vita che ha coinvolto quattro generazioni. Edson Arantes do Nascimento vivrà nel silenzio queste ore. L'urlo della folla che lo ha da sempre accompagnato, oggi ha un suono lontano. L'ombra del mito continua ad allungarsi nel tempo infinito.

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