La macchina da gol sbarcò a Milano per via di una vecchia premonizione. Da bambino, per sfuggire agli effetti di Chernobyl, Andrji Shevchenko passò qualche settimana proprio a Milano e visitando San Siro, di sera, gli parve di andare incontro a un'astronave. Perciò decise di tornare, da giovanotto a caccia di successo, in quell'astronave per provare a sfondare da calciatore. Era stato addestrato a macchina da gol da un vero, spietato, meccanico del calcio sovietico, mastro Lobanovski. Allenamenti, tre al giorno, duri col sole e con la neve, per trasformare un ragazzino dal sorriso incerto e dal tocco delizioso, in una perfetta macchina da gol. A scoprirne il talento fu l'uomo dall'occhio lungo del Milan, Ariedo Braida che passò ad Adriano Galliani la segnalazione. Il condor partì per Kiev promettendo una cifra consistente, 40 milioni di dollari, ma con la quotazione bloccata a una certa data così che nei mesi successivi la società risparmiò un bel mucchio di denari.
La macchina da gol arrivò a Milanello, incrociò Weah, Bierhoff e una compagnia di grandi campioni, e cominciò subito, in gol a Lecce in un pantano, al debutto assoluto in campionato, bruciando sul tempo il rivale, ad affermare le sue qualità. Alla fine di una carriera super riuscì a collezionare cifre da capogiro. Pensate un po': 175 gol in 322 partite col Milan, media da robot, 0,54 ogni 90 minuti, superandola nelle presenze di campionato, 226, con 127 reti, che sono la perfomance appena sotto quella realizzata dal mitico pompierone Gunnar Nordahl. Impressionante i numeri complessivi (402 gol in 832 partite) di una carriera, luminosa al Milan, opaca al Chelsea, abbagliante con l'Ucraina dove da qualche settimana è diventato il ct trascinandosi dietro, a Kiev, l'esperienza cristallina di Mauro Tassotti e la lavagna tattica di Andrea Maldera.
Quando spuntò a Milanello, nell'estate del '99, la macchina da gol cominciò a mostrare qualche insofferenza. Si lavorava poco per i suoi ritmi in patria, un allenamento al giorno, due in casi straordinari. E allora, di nascosto, Sheva cominciò a fare un lavoro supplementare studiando le tabelle che il maestro Lobanovski gli aveva consegnato. Zaccheroni, l'allenatore dell'epoca, appena scoprì la marachella ordinò a magazzinieri e massaggiatori di chiudere a chiave gli spogliatoi per evitare che Sheva si allenasse di nascosto. Non ci fu bisogno di molto tempo per capire che quella macchina da gol viaggiava a cento all'ora. Aveva bisogno di un pallone lanciato in profondità, uno di quei lanci che Rui Costa indovina con il righello, e poi al resto provvedeva lui, con le sue stoccate, i suoi colpi di testa, le sue rasoiate a pelo d'erba che lasciavano a terra fior di portieri. Divenne col tempo e con l'avvento di Ancelotti il killer dell'Inter nei tanti derby giocati e vinti, e l'eroe di Manchester grazie a quel rigore calciato da ultimo, guardando fisso prima l'arbitro e poi il pallone piazzato davanti alla sagoma di Buffon. Quando decise di volare a Londra da Abramovich, la macchina cominciava già a perdere qualche colpo. Nato nello stesso giorno del suo presidente, divenne anche per questo il pupillo di casa Berlusconi.
Quasi per sottolineare il gemellaggio provò anche la carriera politica in patria conclusa amaramente al primo tentativo. A quarant'anni oggi (auguri di cuore caro Sheva, ndr), da ct giovane e intraprendente, può tornare a occuparsi finalmente della materia che conosce meglio. I gol e la loro magia.
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