Stare "dentro" non è guardarsi dentro

L'isolamento domestico di certo ha molte motivazioni, ma un solo esito: fuggire dalla realtà

Stare "dentro" non è guardarsi dentro
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Il Giappone scoprì il fenomeno dell'hikikomori, l'isolamento volontario delle persone, una ventina di anni fa. Molti giovani si rinchiudevano nelle proprie stanze e rinunciavano a ogni forma di socializzazione che implicasse il contatto tattile o visivo col mondo esterno. Non un rifiuto assoluto dell'idea di comunicare ed essere in relazione con gli altri, dal momento che era già mediato da primordiali supporti informatici. All'inizio furono chiamati in causa fattori psicologici come psicosi regresse, violenze domestiche o fobie. Col passare del tempo questa alterità dal reale, facilitata anche dalla moltiplicazione dei comfort tecnologici, ha pervaso l'Occidente e, in Italia, se ne contano quasi centomila casi. L'allentamento dei vincoli sociali, i contatti sporadici, il lavoro da casa, l'assenza dei superiori e l'ambiente virtuale come sola possibile condizione di esistenza sembrerebbero richiamare la lunga tradizione del monachesimo occidentale e quasi trasbordare nella faticosa dolcezza della reclusione ascetica. Alla cella del religioso viene ora aggiunta la pervasività dei social network e di ogni possibile tecnologia che trasforma tutto in una condizione straniante. Una palese involuzione che ha un alto costo psicologico anche collettivo e che, come spiega Pascal Bruckner ne Le sacre pantofole. Sulla fuga dal mondo (Guanda, pagg. 160, euro 18), fa in modo che «la vita all'interno prenda il posto della vita interiore».

L'assenza del bisogno fisico di incontrare l'altro e l'intorpidimento vengono ricondotti dal filosofo francese a una sorta di regressione postmoderna che può ridefinirsi nell'allegoria delle tre C: la Caverna di Platone dove si scambiano le ombre per la realtà, la Cella come metafora di una vita privata che diventa santuario in cui costruire se stesso, e la Camera dove viene meno il corpo a corpo con la realtà e si trasforma in bunker. Tutto questo è infatti anomalo, ma non del tutto inedito. Sulla categoria metafisica della noia gli scrittori si sono esercitati per secoli. Xavier de Maistre, alla fine del '700 scrisse Viaggio intorno alla mia camera, che ribaltava lo schema dei racconti di viaggio e delle avventure degli esploratori. L'Oblomov narrato dallo scrittore russo Goncarov, e richiamato proprio da Bruckner, trascorre la maggior parte del tempo coricato; e alzarsi o camminare sono le brevi interruzioni fra due momenti passati sul divano, tra pigrizia e meditazione.

A quegli stilemi romanzeschi, l'Oblomov moderno aggiunge la comodità visiva di Neflix e internet. Inoltre, il fenomeno ha avuto un incremento esponenziale anche per ragioni esterne - terrorismo, pandemia, guerra, emergenza climatica - che hanno reso la condizione dell'isolamento una sorta di gabbia dorata di protezione dalle paure e da catastrofi annunciate. Il XXI secolo comincia con gli attentati dell'11 settembre e prosegue con la guerra sul suolo europeo. E se quarant'anni fa l'Aids impose il primo vincolo globale, vale a dire proteggersi gli uni dagli altri per non infettarsi, col coronavirus si è fatto un passo in avanti: evitare il contatto. La vita da recluso è vista non più solo come distanziamento dalla socialità, ma anche come fortilizio, guscio non penetrabile entro cui si può resistere agli attacchi provenienti dall'esterno. Si evitano grandi gioie e, al tempo stesso, grandi tormenti cosicché anche l'isolamento imposto col lockdown per taluni diventa godimento. In fondo, se possiamo beneficiare di svaghi come il cinema o il teatro seduti in poltrona, o usufruire della ristorazione porta a porta e di uno smartphone che trabocca di notizie, perché uscire e inoltrarsi nella giungla urbana?

Un duplice processo di cristallizzazione e di accelerazione in atto da tempo che fa godere della reclusione, che si sposa con gli agi concessi dal progresso, ma che non può non essere circoscritto nel concetto di «Grande Ritirata» utilizzato da Bruckner. Questi «sacerdoti del minimale, adepti della letargia volontaria» non hanno più nulla di attivamente ribellistico sotto il profilo politico o una ambizione ascetica, ma tendono a degradare nell'estremismo della routine. Da cui si innescano pericoli. In primo luogo la normalizzazione della paura. La ferma convinzione che tramite lo strumento tecnico si possa valicare ogni ostacolo e che in nome della sicurezza si possano cedere pezzi di libertà. Infine, il rischio di non parlare più di cambiamento, ma di salvezza.

Tralasciare per sfiducia le soluzioni intermedie favorite dalla discussione pubblica e dalla pratica politica per lasciarsi andare al declinismo e al catastrofismo, le ideologie che dominano l'Occidente e che hanno come marchio di fabbrica l'invito solo a sopravvivere.

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