STORIA MILITARE D'ITALIA

Matteo Sacchi

Se c'è un corpo militare italiano che è entrato nella fantasia collettiva, e non solo nel nostro Paese, questo corpo è quello degli alpini. Ne abbiamo parlato con lo storico militare Gianni Oliva, il quale tra i suoi molti saggi vanta anche Storia degli alpini dal 1872 a oggi che verrà pubblicato all'interno della nostra collana storica ad aprile.

Professor Oliva: nel 1872 nasce un corpo militare molto diverso da tutti gli altri. Cosa accadde?

«Nell'autunno del 1871 il Capitano di Stato maggiore Giuseppe Perrucchetti scrisse uno studio intitolato Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale nella zona alpina. In esso prendeva atto che il sistema di reclutamento italiano tendeva a far confluire i coscritti delle valli montane in pianura e solo dopo a inviare le truppe all'eventuale difesa dei passi. Con questo sistema e con i suoi tempi di rischieramento un eventuale aggressore avrebbe avuto modo di prendere il controllo di tutti i punti in quota prima della nostra reazione. Questo senza contare che nei reparti misti la capacità addestrativa era quel che era, ci sarebbero stati anche uomini completamente digiuni di montagna. Mentre i valligiani erano già pronti naturalmente ad operare in quota».

Quindi si pensò a un reclutamento di tipo nuovo...

«Si dovettero prima superare alcuni dubbi. L'esercito all'epoca svolgeva anche un grande ruolo nel mantenimento dell'ordine pubblico. Per poterlo svolgere era necessario inviare le truppe lontano da casa. A conti fatti però ci si rese conto che le valli alpine erano tendenzialmente monarchiche, conservatrici, poco inclini a generare rivolte. Quindi non c'era grande necessità di soldati venuti da fuori. Così nel 1872 vennero create le prime 15 compagnie alpine sperimentali. La cosa funzionò così bene che nel 1882, a dieci anni di distanza, erano già stati costituiti sei reggimenti alpini, ognuno composto da tre battaglioni».

Quali erano le peculiarità di queste truppe?

«In primo luogo direi che a caratterizzarle era il fatto che i soldati prima di essere commilitoni erano compaesani. Era nato un corpo con una solidarietà interna fortissima. Gli alpini erano montanari e nel corpo mostravano le stesse caratteristiche della vita civile. Gli alpini erano resistenti, tenaci, abituati a una obbedienza rassegnata. Anche dotati di una attitudine diversa ad operare in piccoli gruppi automi e scollegati. Era il terreno stesso in cui operavano a promuovere questa caratteristica».

Insomma, sfruttando il bacino di leva era stato creato a basso costo un corpo ad alta specializzazione. Però lo Stato maggiore lo utilizzò anche fuori dal suo contesto come in Africa...

«Il vero battesimo del fuoco degli alpini, che già operarono in Eritrea nel 1887, fu durante la battaglia di Adua. In un certo senso questo utilizzo fuori contesto - e non sarà certo l'ultimo - è tipico della divaricazione tra la politica estera italiana e le scelte militari degli alti comandi. Gli alpini come molti altri reparti sono spesso stati usati nel posto sbagliato. Prima dell'ingresso nella Seconda guerra mondiale l'Italia investì moltissimo nella fortificazione dell'arco alpino e molto poco nei mezzi corazzati che poco sarebbero serviti nell'ipotesi di una guerra a difesa di un arco montuoso. Poi alla fine le nostre truppe si trovarono a combattere in Africa e in Russia in un contesto in cui i corazzati erano fondamentali».

Gli alpini diventano ben presto un corpo mitico. Come accade?

«In parte per quelle virtù che elencavamo prima: virtù che apparvero da subito affascinanti. Gli alpini che combatterono durante la Prima guerra mondiale furono circa 200mila su un esercito che mobilitò 5 milioni di persone. Eppure furono il corpo più rappresentato e raccontato del conflitto. Ad allargarne il mito furono anche scrittori e patrioti come Cesare Battisti che era capitano degli alpini e scrisse: Gli alpini. Un libro molto letto dopo la guerra mondiale fu anche Con me e con gli alpini di Piero Jahier. Poi, col secondo conflitto mondiale, c'è stata l'epopea della campagna di Russia raccontata da Mario Rigoni Stern, Giulio Bedeschi e Nuto Revelli. Quei libri ebbero successo anche perché in un clima di Guerra fredda il dramma dei combattimenti in Urss sposava bene il clima politico. E poi perché l'alpino valoroso che tiene la posizione, ma lontano dall'arditismo, si sposava meglio con l'abbandono degli eccessi di aggressività propagandati nel fascismo. Dei paracadutisti in Africa si è parlato meno nonostante ne abbia scritto uno come Mario Tobino».

L'alpino appare vincente anche quando perde...

«Il glorificare la

sconfitta onorevole fa parte dello spirito nazionale, forse perché ne abbiamo avuto anche di non tanto onorevoli. Ma gli alpini hanno all'attivo anche molte vittorie. Pensi al colpo di mano sul Monte Nero nel giugno del 1915...».

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