Kikusui ("Acqua dei Crisantemi") era il nome dello stendardo da guerra del leggendario samurai giapponese Kusunoki Masashige, guerriero nipponico simbolo di nobiltà e fedeltà morto nel 1336. La sua nobiltà e fedeltà furono richiamati dalle forze armate dell'Impero giapponese nell'ora più buia, precedente la disfatta finale, della Seconda guerra mondiale, quando proprio allo stendardo Kikuskui fu intitolata l'operazione con cui i kamikaze nipponici furono spinti a immolarsi in massa per contrastare le operazioni americane e britanniche al largo di Okinawa, isola in cui infuriava una ferocissima battaglia tra le armate del Sol Levante e gli Alleati.
Kikusui, kamikaze a Okinawa
Forza della disperazione e forza di un irrefrenabile senso dell'onore. Spesso risoltosi in drammatiche scelte. Questo spinse i generali e gli ammiragli dell'Impero giapponese a riscoprire la leggenda del "Vento Divino", il "kami-kaze" che nel XIII secolo, poco prima dell'epopea di Kusunoki aveva distrutto la flotta mongola di Kubilai Khan salvando il Giappone. Interpretandone la riedizione moderna sotto forma del varo dell'armata di aerei suicidi chiamati a immolarsi contro le portaerei e le altre navi della flotta alleata.
Perse con la battaglia del Golfo di Leyte, a inizio 1945, le ultime portaerei e sbandate le ultime corazzate di peso, perse molte isole strategiche nell'Indo-Pacifico le forze del Giappone trovarono nella riconversione in aerei da attacco suicidi dei caccia Zero e dei bombardieri della flotta imperiale e dell'Esercito un estremo tentativo di fermare l'avanzata anglo-americana. La questione chiave della storia dell'ultimo, folle per la mentalità occidentale ma chiaro per quella nipponica, tentativo di resistenza, sta nell'adesione massiccia dei piloti dell'imperatore Hirohito alla missione suicida di massa.
Inizialmente gli attacchi suicidi dei kamikaze erano apparsi gesti estemporanei, che avevano portato le forze armate del Giappone a incassare risultati come l'affondamento di due portaerei leggere, di diverse navi di scorta e di decine di mercantili al largo delle Filippine durante la battaglia di Leyte. A aprile 1945, con gli americani in movimento su Okinawa, l'ammiraglio Matome Ugaki, nominato due mesi prima comandante della Quinta Flotta Aerea dell'Aviazione del Giappone, si mosse per organizzare la campagna suicida di massa. Mentre in Europa la Germania nazista veniva travolta dall'avanzata congiunta di Alleati da Ovest e sovietici da Est, nell'ottica di Tokyo la resa era ritenuta un'operazione totalmente da escludere.
Le dieci ondate dei kamikaze su Okinawa
Ugaki ordinò "la conversione in aerei d'attacco speciali di tutti gli aerei da guerra dell'esercito e della marina" applicando le direttive del Quartier Generale delle Forze Armate di Tokyo. I mitici caccia Zero, gli aerosiluranti Tenzan, i bombardieri pesanti Hiryuus furono convertiti in larga misura in "bombe" volanti. I migliori piloti dell'aviazione furono risparmiati dalle missioni suicide per organizzare la copertura da caccia necessaria alla strategia dell'Operazione Kikusui.
A partire dal 6 aprile 1945, in dieci diverse ondate, stormi di centinaia di aerei si alzarono in volo da Formosa e da Kyushu per dirigersi nel Mar di Okinawa. Squadroni componenti almeno 300 aerei per volta, per due terzi kamikaze e per un terzo di scorta, prendevano intenzionalmente di mira le navi alleate. Mentre nel frattempo anche la super-corazzata giapponese Yamato partiva per la sua missione suicida nelle stesse acque, che si sarebbe conclusa con l'affondamento della più grande nave del Sol Levante, i cacciatorpediniere Haynsworth, Bush e Colhoun della United States Navy divennero le prime vittime degli stormi di kamikaze caduti in picchiata sulle navi alleate. Con lealtà e dedizione, il fior fior dell'aeronautica giapponese scelse consapevolmente la strada della morte: l'obiettivo era portare con sé il maggior numero possibile di militari nemici, far pagare loro duramente l'appoggio a una campagna di conquista che si riteneva violante il territorio metropolitano dell'Impero.
"Morire era l'adempimento supremo del nostro dovere"
Assieme ai veterani, si unirono in massa una serie di giovani reclute, spesso addestrate a volare esplicitamente per conseguire l'obiettivo ideologico di morire per l'Imperatore nell'inferno di Okinawa. "Siamo stati addestrati a sopprimere le nostre emozioni. Anche se dovessimo morire, sapevamo che era per una causa degna. Morire era l'adempimento supremo del nostro dovere e ci fu comandato di non tornare. Sapevamo che se fossimo tornati vivi i nostri superiori si sarebbero arrabbiati"", dichiarò nel 2015 al Guardian il 92enne Hisao Horiyama, tra i pochissimi a sopravvivere a questa fase cruenta.
Salvato dall'armistizio e dalla resa del 15 agosto 1945 seguita al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Horiyama è tra i pochi kamikaze arruolati ad aver raccontato la sua storia personale. Come lui, migliaia di giovani si immolarono nei due mesi dell'Operazione Kikusui. Oltre 2mila aerei tra caccia di scorta e kamikaze si schiantarono nei mari o sulle navi e ben 3mila piloti persero la vita. Gli Alleati subirono l'affondamento di 26 navi e il ferimento di portaerei come la britannica Formidable e l'americana Enterprise, ma soprattutto una conta dei morti spaventosa: 4.500 caduti e quasi 5mila feriti. L'Operazione Kikusui fu una delle poche battaglie della fase finale della guerra in cui le perdite alleate sopravanzarono in numero quelle nipponiche.
La resistenza dei kamikaze spinge l'opzione atomica
L'Operazione Iceberg, la campagna terrestre di Okinawa, per fare un paragone vide oltre 7mila morti da parte alleata nei feroci combattimenti e una vera e propria ecatombe tra i giapponesi, che ebbero oltre 100mila morti e videro inoltre l'uccisione di 42mila civili nei combattimenti o sotto i bombardamenti. Nel frattempo, tra aprile e giugno, i nipponici mettevano in linea anche aerei pensati esclusivamente per l'uso da kamikaze, come la bomba volante Ohka vista in azione terrorizzando gli equipaggi delle navi, costretti a un perenne contesto di stress e veglia.
Kikusui giocò un ruolo fondamentale nel mostrare la strenua volontà di resistenza delle forze armate imperiali. E mobilitò il comando strategico americano del generale Douglas MacArthur a considerare potenzialmente gigantesche le perdite da tenere in conto per un'invasione dell'arcipelago giapponese. L'Operazione Downfall, divisa nei due tronconi di Olympic — l'invasione dell'isola meridionale Kyūshū - e Coronet — l'invasione dell'isola principale, Honshū, pensata per l'1 novembre 1945 veniva preparata mentre, dopo l'esaurimento dei combattimenti attorno Okinawa, in patria Ugaki preparava l'armata finale di kamikaze puntando ad arruolarne fino a 10mila per le missioni suicide volte a contrastare uno sbarco nemico considerato inevitabile.
Da parte americana, una stima di mezzo milione di morti per la conquista del Giappone era ritenuta, in tal senso, ottimistica. Lo staff del Segretario di Guerra Henry Stimson calcolò che solo gli Alleati avrebbero subito come minimo 1,7 milioni e potenzialmente fino a 4 milioni tra morti o feriti e i giapponesi tra i 6 e i 10 milioni di morti, in buona parte civili, se le isole fossero diventate campo di battaglia. Ogni stima citava la tenacia dei kamikaze e la possibilità che Tokyo decidesse di replicare sotto altre forme la mobilitazione totale contro gli invasori. Da qui nacque lo stimolo che portò il presidente Harry S. Truman ad autorizzare l'utilizzo dell'arma atomica per forzare la resa del Giappone.
La morte di Ugaki
Dopo il doppio shock di Hiroshima e Nagasaki, il 15 agosto 1945 Tokyo ordinò di cessare i combattimenti. Tra coloro che non si arresero all'ordine dato dall'imperatore fu l'architetto della strategia di guerra kamikaze, Ugaki. Desideroso di finire con una percepita nobiltà o dignità la sua guerra. L'ammiraglio 55enne, veterano della Grande Guerra e stratega della grande corsa al suicido di migliaia di piloti che allungò un conflitto già perso, non fu da meno di coloro che aveva indottrinato per andare a morire né cercò un estremo rifugio.
Sentita la notizia della resa agli Alleati, Ugaki posò per un'estrema foto di rito, si spogliò delle sue medaglie e salì su un bombardiere Yokosuka D4Y pilotato dal capitano Tatsuo Nakatsuru. Da un aeroporto di Kyushu decollarono altri dieci aerei della stessa squadriglia, puntarono sulla rotta delle Ryukyu e si diressero nel Mar di Okinawa, in un'ultima estrema missione kamikaze. Disperata, ma onorevole, fu la battaglia in cui, a Paese già arreso si immolarono gli ultimi kamikaze nella coda dell'operazione Kikusui.
Estrema - ed emblematica - manifestazione di un onore guerriero che aveva partorito i disegni espansionistici del Giappone imperiale ma anche storie di drammatico pathos guerresco come quelle andate in scena nell'inferno di Okinawa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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