"Stressata dai figli". Ecco la colpa della madre di Cogne

I giudici della Corte d’Appello: "Soffre di un conflitto interiore, è stato un massacro". Lo sfogo di Annanaria: "Io, triturata"

"Stressata dai figli". Ecco la colpa della madre di Cogne

Fu un «conflitto interiore» a scatenare il massacro di Cogne. Annamaria Franzoni, una donna dalla personalità disturbata, covava dentro di sé un malessere, originato dalla «difficile gestione dei due figli», che esplose incontrollabile la mattina del 30 gennaio 2002: davanti ai pianti del piccolo Samuele, la mamma prese un pentolino di rame o un mestolo e con quello colpì selvaggiamente il bambino. Poi uscì di casa e accompagnò l’altro figlio, Davide, allo scuolabus. In 533 pagine i giudici della corte d’assise d’appello di Torino spiegano il perchè della sentenza emessa il 27 aprile scorso. E motivano la condanna a 16 anni: Annamaria era capace di intendere e di volere,ma quella sofferenza interiore merita la concessione delle attenuanti generiche.

Annamaria Franzoni non era una persona in pace con se stessa. Dentro di lei c’era «un conflitto interiore» che esplose la mattina del 30 gennaio 2002. Quel conflitto, secondo la corte d’assise d’appello di Torino, spiega il massacro del piccolo Samuele Lorenzi.
Il movente
Tradizionalmente, si chiama movente. I giudici di Torino, i due togati e i sei popolari, ricorrono alla parola «causale». E avanzano dentro la psiche di Annamaria per capire cosa accadde quel giorno: «La causale non può essere separata dalla natura del conflitto, che diede origine allo scompenso della sua sintomatologia ansiosa». Che cosa accadde dunque e qual era la natura del conflitto? «È plausibile - risponde la corte - che il “polo nascosto” risiedesse in una forte preoccupazione di Annamaria Franzoni per il figlio Samuele, che soffriva di intolleranze alimentari e di temporanei ritardi nell’accrescimento, come dimostrano i documenti clinici che riguardano i controlli e i brevi ricoveri del bambino».
Si trattava appunto di situazioni non particolarmente gravi, ma per la corte è quella fragilità ad armare la mano di Annamaria: quegli «elementi avevano dato motivo in famiglia a definirlo, sia pure in tono affettuoso e con intento apparentemente scherzoso, “nanetto”, “con le gambe ad x”, o “con le gambe secche”». Ma erano espressioni scherzose? No, per i giudici: quelle «espressioni lo designavano, in effetti, come un soggetto che creava inquietudine, e forse delusione (almeno nella Franzoni)».
Samuele è un bambino con qualche problema. La mamma gestisce lui e suo fratello cedendo al «sovraffaticamento e allo stress». Le sera precedente è stata male: l’indomani, 30 gennaio, il quadro non migliora.
Samuele piangeva
«Samuele -si legge nelle motivazioni - si era svegliato e piangeva... così che la Franzoni, che si trovava a dover fronteggiare un bambino inquieto e riottoso, capì che Samuele creava serie difficoltà all’organizzazione che lei aveva disegnato per quella mattina».
Lei, «molto stanca per aver dormito poco e male durante la notte, a causa dell’acuirsi della crisi d’ansia e dei connessi fenomeni..., desiderava di lasciare a casa Samuele, per rimettersi a riposo, dopo aver accompagnato Davide, e stare, infine, vicina al più piccolo, trascorrendo tranquillamente il mattino in casa con lui».
La ribellione di Samuele
Il pianto di Samuele mette in moto la madre che prende le sue contromisure: lo sposta nel “lettone” «dandogli a credere che non sarebbe uscita di casa». È la scintilla del massacro: «La ribellione di Samuele diede avvio alla reazione violenta dell’imputata, ansiosa, sofferente, stanca ed arrabbiata, in presenza di un discontrollo, favorito dallo stato ansioso e dall’indicato fattore scatenante». Il meccanismo inizialmente punitivo degenera «in modo furioso, per l’impulso irresistibile di un’intensa testardaggine della Franzoni, contrapposta a quella del figlio; insomma, come ha detto il Procuratore generale, il quadro di riferimento fu quello di uno scontro fra testardaggini: quella di un bambino ipermotorio e quella di una madre che è portata a voler raggiungere a tutti i costi i risultati che si era prefissata». Anche una madre buona, che non ha mai maltrattato i figli, «può fare del male alla sua creatura».
"Tratti patologici"
Naturalmente, se i problemi di salute, relativamente modesti, di Samuele fanno saltare il coperchio della psiche di Annamaria è perchè la sua personalità non è perfettamente bilanciata. Qui il discorso si fa difficile, la perizia psichiatrica - condotta da quattro esperti senza esaminare la Franzoni che non ha voluto incontrarli - raggiunge conclusioni assai sfumate e scivolosissime: i periti hanno tratteggiato una «personalità con tratti patologici marcati, nel senso di un’organizzazione isterica, precisando tuttavia che tali disturbi e i profili di isterismo di base che connotano l’imputata, non configurano di per sè una fattispecie rilevante agli effetti dell’imputabilità ma possono costituire la premessa per deduzioni sulla possibilità di slivellamenti nel funzionamento psichico».
Tradotto: la Franzoni è capace di intendere e di volere e infatti verrà condannata a a 16 anni, ma gli «slivellamenti» spiegano che, se Annamaria non era seminferma di mente non era però nemmeno perfettamente a posto. Siamo in una sorta di limbo, di terra di nessuno, dove tutte le definizioni stano strette, ma per i giudici questo è l’unico modo per acchiappare una personalità che non li convince e che porta, attraverso tornanti a dir poco tortuosi, ad una sentenza “psichiatrica”.
«I periti psichiatri - insiste la corte - hanno escluso che in Annamaria ci siano sintomi di psicosi, vale a dire, di una vera e propria malattia mentale, ma hanno rilevato che all’epoca dei fatti addebitati, versava in una condizione altrimenti patologica, definibile in termini di sindrome ansiosa con aspetti di conversione somatica (senso di malessere, senso di mancanza del respiro, senso di svenimento, parestesie agli arti)».
Davide
Questo tormentato viaggio nella psiche spiega, o almeno tenta di spiegare il mistero di Cogne. Un rebus che il giudice di primo grado aveva risolto appioppando una condanna esemplare, 30 anni, ad una assassina senza attenuanti.
Poi la corte analizza tutti gli altri elementi e circostanze, cominciando dalla presenza in casa, quella mattina, di Davide, il fratello più grande di Samuele. Possibile che la mamma abbia ammazzato Samuele mentre Davide era nei paraggi? I giudici trovano una possibile soluzione spiegando che Davide era uscito, come al solito, un po’ prima: «Davide si era alzato, aveva fatto colazione solo con i corn flakes, guardando forse i cartoni animati, e una volta pronto, era immediatamente uscito per andare a fare il giro in bici, mente la mamma era scesa, come al solito, a vestirsi. Si può ritenere pertanto che Davide era stato fuori almeno quattro o cinque minuti prima che la madre uscisse».
È in quel momento che il conflitto interiore esplode?
L’assenza di alibi
Per la corte alla condanna di Annamaria si arriva sulla base di «fatti certi» che determinano «un quadro indiziario di elementi univoci e concordanti» a fronte dei quali «nessun elemento contrastante è emerso dalle indagini». L’assassino era inginocchiato sul letto, indossava i pantaloni e la casacca del pigiama di Annamaria e, come se non bastasse, anche i suoi zoccoli, poi riportati al piano superiore dopo il fatto.
Certo, Annamaria si è allontanata dalla villetta di Montroz per portare Davide allo scuolabus, «ma questo non permette in alcun modo di ascrivere il fatto ad un terzo estraneo e, quindi, non vale ad escludere la realizzabilità dell’omicidio da parte dell’imputata nel periodo antecedente alla sua uscita da casa». In poche parole, «l’alibi degli 8 minuti di assenza, in realtà da contenersi in circa 5-6 minuti», fra le 8.16-8.17 e le 8.23-8.24, «ad un esame concreto si rivela inconsistente».
L’arma mai trovata
E l’arma? Per i giudici Annamaria Franzoni ha utilizzato un pentolino di rame o un mestolo. Ma che fine ha fatto questo attrezzo? La corte concentra su quei minuti, «fra le 8.23-8.24 e le 8.27 e 30 secondi, avuti a disposizione fra il rientro a casa, dopo aver accompagnato i figlio, e la prima telefonata di richiesta di soccorso». In quel periodo la Franzoni avrebbe fatto sparire l’oggetto, «magari già avvolto in qualche indumento, in modo da non lasciare tracce fuori dalla stanza del delitto (al riguardo qualche interrogativo si pone per un calzino, la cui sparizione dalla stanza del delitto l’imputata non è stata in grado di giustificare), occultamento avvenuto, o mediante semplice lavaggio e ricollocazione dell’oggetto (non preso in considerazione dagli inquirenti all’epoca orientati verso altri oggetti), o mediante introduzione nello zainetto con cui l’imputata era uscita e sequestrato solo dopo tre giorni».
In conclusione, «la corte non vuole affatto sminuire la portata del delitto che Annamaria Franzoni ha commesso, esprimendo, con la sua condotta efferata, un dolo intenzionale di omicidio che ha superato in un breve momento ogni freno, come è reso evidente dal vero e proprio massacro della testa del bambino».
Niente attenuanti
Siamo al paradosso: la Franzoni è capace di intendere e di volere, il delitto è efferato, ma l’imputata merita le attenuanti generiche perchè «ha sofferto di un reale disturbo che rientra nel novero delle patologie clinicamente riconosciute (degne anche di trattamento terapeutico), ma che nel sistema giuridico-penale vigente, non costituisce, di per se stesso, infermità che causa vizio di mente. La devianza da un parametro di normalità» per la corte è evidente ed è appunto un «disturbo d’ansia».
Il calcolo della pena
La corte parte dalla pena base di 24 anni. L’aggravante del «figlicidio» viene “annullata” dalle attenuanti generiche; la scelta del rito abbreviato, che garantisce lo sconto di un terzo, porta la giustizia a fermarsi a quota 16 anni.

Sedici anni, per un verdetto “cerchiobottista” che dice tutto e il contrario di tutto.
No all’indulto
La Franzoni è indagata, sempre a Torino, per calunnia aggravata. Risultato: la corte dice no all’indulto, almeno per il momento.

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