E' appena uscita una serie, "Tales from the Loop", su Amazon Video, di cui era stata resa disponibile un'anteprima parziale a critici e giornalisti: tre episodi non consecutivi.
Mai come questa volta ha avuto senso evitare di recensire un prodotto prima di averlo potuto guardare dall'inizio alla fine. Se, infatti, l'allure d'incomprensibilità poteva giovare distribuita su tre piccoli racconti legati l'uno all'altro in maniera appena percepibile, una volta di fronte alla visione d'insieme degli otto capitoli la sensazione è completamente diversa.
Andiamo per gradi. "Tales from the Loop" è ambientato in un mondo allo stesso tempo inquietante e idilliaco, tanto simile eppure diverso dal nostro, fatto di paesaggi pastorali svedesi in cui sono perfettamente inseriti misteriosi elementi di fantascienza. Racconta la storia di una cittadina che si erge sopra ad un centro di ricerca sotterraneo, il “Loop”, in cui nei primi anni '80 si indaga come l'impossibile possa divenire possibile. Fin dall'inizio vediamo muoversi in questa cornice alcuni personaggi che, di volta in volta, diventano centrali oppure restano coinvolti a diverso titolo nella vicenda vissuta da altri.
Ispirata a una collezione di dipinti, scene rurali con commistioni tecnorobotiche, è una serie in cui da un lato si è di fronte allo sconosciuto potenziale dell'universo, dall'altro in esplorazione delle profondità esistenziali dell'essere umano. Tutto molto intrigante, soprattutto perché la cornice archeo-futuristica ha un fascino inequivocabile e la colonna sonora del grande Philip Glass si presenta ipnotica e straniante pur restando davvero suadente.
Il problema è che il ritmo dilatatissimo, le domande sottintese, cervellotiche e fini a se stesse, il vezzo di lasciar mantecare mondi paralleli, paradossi temporali, identità doppie e anomalie variamente assortite, non fanno che spossare uno spettatore già in balia di notevoli incertezze e costretto a una condizione a tratti surreale come l'inaspettata quarantena.
Mai come in questo momento urge fare attenzione all'impatto emotivo dei contenuti visivi, uditivi e riflessivi che introduciamo nel nostro essere. Stiamo parlando di episodi della durata di quasi un'ora ciascuno, in cui all'indiscussa bellezza estetica si accompagna il sentimento costante d’impotenza e d'incomprensione vissuto dai personaggi. All'inizio si è incuriositi ma poi quella pacatezza dolente sempre più marcata ti consuma da dentro senza rivelare nulla d'illuminante. L'immensa sensazione d'attesa che non conduce da nessuna parte è troppo simile a quella vissuta in massa da chi oggi cerca di evaderne di fronte alla tv.
In "Tales from the Loop" gli ampi paesaggi dalla staticità visionaria, le inquadrature fisse, i dialoghi al rallentatore e i dubbi suggeriti in maniera subliminale insinuano un senso di smarrimento che non giova.
Certo, alla fine tutto inizia ad avere senso e le varie tessere a incastrarsi, ma il collante resta un dannoso tono di trattenuta drammaticità.
Lo stesso eccelso accompagnamento musicale inizia ad apparire come una sottile tortura, teso com'è a ripetere se stesso e ad amplificare quindi lo sterile camminare in cerchio delle vicende raccontate.
Intendiamoci, gli spunti da cui originano i vari episodi sono in parte indimenticabili, specie quelli legati a diverse strutture sferiche: c'è quella oracolare che predice all'avventore la durata della sua vita, quella che si fa embrione in cui poter compiere uno switch esistenziale, infine quella sotterranea, matrice di tutto e cuore pulsante del racconto.
Il punto è che straniarsi in un realismo distopico così alienante e privo di senso è qualcosa che molti sperimentano già nel presente: un loop, appunto, da evitare almeno sullo schermo.
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