Trent’anni fa moriva ammazzato Walter Tobagi, inviato speciale del Corriere della Sera. Chi oggi ha quarant’anni se ne ricorda a malapena. Chi ne ha meno non sa nemmeno di cosa si stia parlando. Ciò non toglie che quel delitto abbia avuto e abbia ancora un significato storico. Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigentie di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere , che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nel nostro ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava. Un giorno lo incontrai sulle scale e mi chiese: «Verresti al Corriere?». «Di corsa», risposi.
Due settimane dopo ero seduto, timido e imbarazzato, al tavolone stile Times nel settore politico, guidato da Carlo Galimberti, autentico fuoriclasse nel nostro mestiere di confezionatori di giornali, nonostante non avesse mai scritto un articolo e, quindi, non avesse mai avuto la soddisfazione di leggere la propria firma sul Corrierone . Allora usava così. I capi organizzavano, rileggevano, correggevano e non veniva loro neanche in mente di compilare pezzi.
Tobagi era mio compagno di banco; quasi sempre assente, in quanto in altre faccende affaccendato in veste di presidente della Associazione e di leader del Comitato di redazione nonché di inviato, specialista in terrorismo. Il fatto che egli non avesse l’obbligo di stare in redazione lo rendeva antipatico alla maggioranza dei colleghi, esclusi ovviamente i suoi beneficati come me e quelli che votavano lui per gratitudine e speranzosi di ottenere altri aiuti per fare carriera.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non so se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere , come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere.
E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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