nostro inviato a Barcellona
Intanto un palco così non s’era mai visto: è altissimo, quasi cinquanta metri e arriva fino al secondo anello di questo stadio bollente, il Camp Nou, che ieri sera si è riempito di novantamila tifosi scatenati per battezzare il nuovo tour degli U2 (a San Siro il 7 e l’8, biglietti ancora disponibili). In poche parole, è iniziata l’estate del rock, quella sarabanda che distribuisce musica dappertutto. Tanto per dire in ordine sparso, prima della chiusura di Ligabue all’Arena di Verona a fine settembre, stavolta arrivano Madonna (14 luglio a San Siro, il 16 al Friuli di Udine), poi Bruce Springsteen (il 19 all’Olimpico di Roma, il 21 a Torino, il 23 a Udine), i Coldplay (sempre a Udine il 31 agosto) e pure gli Oasis (il 30 agosto a Milano). E la parola d’ordine è: grandiosità, dovunque e comunque, quasi a far da contraltare alla paura che di questi tempi dilapida l’entusiasmo del pubblico.
D’altronde basta guardarlo, questo palco che Bono ha definito «The Claw», l’artiglio e che costa l’iradiddio, 106 milioni di dollari. È una cattedrale d’acciaio, un’enorme cupola che si appoggia su quattro chele che abbracciano la piattaforma dove suona la band. «Con questa idea, ci ritroviamo i fans a 360 gradi intorno a noi, possiamo quasi abbracciarli» hanno detto gli U2 e vai con le interpretazioni. Con questa struttura il messaggio è chiaro: la stabilità - accidenti quanta - e l’annullamento delle barriere che solitamente dividono il pubblico dalle rockstar, mitizzano i cantanti, spersonalizzano lo show. Per farla breve, il palco è così grande che fa sembrare piccolo questo stadio, persino quando Bono si collega con gli astronauti della stazione orbitante Iss: «Com’è la Terra vista da lì?».
E ci vuole un attimo, quando alle 22 Bono salta su in scena per cantare Breathe, per accorgersi di quanto il pubblico, lo festeggi con un calore che te lo scordi. Certo, lui è il guru, è la metarockstar che va oltre la musica e la mescola alla politica, all’ansimante bisogno di trasformare la propria ricchezza in un’opportunità per altra gente. Ma qui, a vederlo come scorrazza sull’anello intorno al palco, toccando le mani della gente come se fossero nastri di un traguardo, si capisce che anche lui ha cambiato volto, s’è adeguato, è molto meno capopopolo e più rockettaro, evviva. Sarà che la band gli ha intimato di fare un passo indietro perché, come ha detto Larry Mullen, «è sempre meglio essere un quarto degli U2 che un singolo da solo». Oppure è semplicemente la sua nuova fase, quell’impulso irrazionale che, come spesso ha detto (anche recentemente al Times) trasforma un uomo normale nell’interprete di ciò che sente la gente.
E così in oltre venti canzoni, vanno in scena gli U2 versione basic, splendidi e aggressivi e trascinanti e va bene. Ma meno irruenti, meno messianici. C’è, sia chiaro, un discorso di Desmond Tutu sui mali dell’Africa che apre la lunga serie di bis. E c’è l’inevitabile carezza a Michael Jackson, quando durante Angel of Harlem (inserita nella scaletta in fretta e furia) Bono accenna a Man in the mirror, il singolo di Jacko che è già tornato al primo posto in mezzo mondo, e pure Don’t stop till you get enough. La furia, volendo, rimane nelle note, essenziali, nei nuovi arrangiamenti (Pride è una sorpresa), nel bisogno di abbracci che si sente fin lassù, fino al terzo anello mentre inizia One e il pubblico parte d’un botto a cantare «Siamo insieme ma non siamo la stessa cosa» con quel bisogno pacato, onnivoro, di tranquillità. E c’è, tra la gente che si è accampata fuori fin dall’altro ieri, l’istinto sordo che questa potrebbe essere per un bel pezzo l’ultimo giro degli U2 nei grandi stadi.
«Non so per quanto tempo faremo ancora queste cose» aveva detto Bono qualche mese fa,
quasi sommessamente, quasi anticipando quel Moment of surrender, quel momento di abbandono che è pure il titolo dell’ultima canzone, l’ultimo coro che qui al Camp Nou si spegne quando la band è già dietro, nei camerini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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