Vissi d’arte, vissi d’amore... per un gatto che fa le fusa

«I gatti sono degli incompresi solo perché disdegnano di spiegarsi» ha scritto Paul Morand. A differenza degli altri animali domestici che in qualche modo si rendono utili, il gatto si guarda bene dal farlo ma si limita a concederci la sua presenza e proprio questa innata seduttività ha ispirato da sempre gli artisti. Innumerevoli sono i saggi, le poesie, i romanzi, dedicati al gatto (Scarlatti ha composto una celebre fuga per pianoforte su un tema zampettato sulla tastiera) ma anche i pittori sono stati attratti dalla sua personalità misteriosa.
Lo dimostra Stefano Zucchi in Gatti nell’arte (Sassi editore, pagg. 360, euro 29,90) un elegante volume che illustra con evidente passione la presenza felina nell’arte figurativa fin dai tempi più antichi: dall’Egitto a Leonardo da Vinci (che nel «foglio di Windsor» ne ha studiato i movimenti e le pose), dai mosaici pompeiani al Tintoretto, che nella Nascita di Giovanni Battista ha raffigurato l’agguato di un gatto a una gallina, e poi via con una serie ininterrotta di grandi maestri che comprende (citando a caso) Bruegel, Rembrandt, Lotto, Renoir, Goya, Picasso, Chagall.
Regale e divino per gli egiziani (ha dato il suo volto alla dea Bastet), il gatto, benché sospettato di complicità con le streghe, comincia ad essere raffigurato come animale domestico e di compagnia nel Medioevo fino al definitivo trionfo nel Rinascimento e nel Barocco quando compare in numerosi lavori di soggetto religioso e persino, unica figura di essere vivente, intarsiato al centro di un maestoso leggio nell’abbazia di Monte Uliveto Maggiore.
Il Ghirlandaio lo ha ritratto sotto il tavolo dell’Ultima Cena, Rembrandt lo ha collocato come quarto componente di una Sacra Famiglia, Rubens ha dipinto un delizioso tigrato dormiente nel bel mezzo di una movimentata Annunciazione, e persino nel Paradiso terrestre, nel drammatico momento della cacciata di Adamo ed Eva, Dürer ha dipinto un gatto soriano che assiste pacificamente alla scena. Ed è ancora un gatto con in bocca un topo, che Hieronymus Bosch colloca nella Nascita di Eva.

Acciambellati in un sonno profondo, intenti a giocare con un gomitolo, a curiosare, a rubare, a fare le fusa in braccio alla padrona o a combinare disastri (come il gatto di Nicolas Maes che sta tirando a sé la tovaglia apparecchiata), i gatti nella pittura conservano l’indipendenza che ostentano nella vita.

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